Al Ministro dell’Interno
Prefetto Matteo Piantedosi
Al Ministro della Giustizia
Sen. Carlo Nordio
e, p.c.
Al Capo della Polizia
Direttore Generale della Pubblica Sicurezza
Prefetto Vittorio Pisani
Oggetto: iscrizione nel registro delle notizie di reato di appartenenti alle forze di polizia, in presenza di cause di giustificazione o esimenti. Richiesta di intervento legislativo.
PREMESSA
Il tema dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato per fatti compiuti da appartenenti alle Forze dell’Ordine durante l’attività di servizio è, da sempre, delicato e complesso. La sua delicatezza affonda le radici in un impianto giuridico consolidato, fondato sul principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 della Costituzione, che trova attuazione nell’art. 335 del codice di procedura penale.
Secondo tale principio, quando un magistrato viene a conoscenza di un fatto potenzialmente rilevante dal punto di vista penale, è tenuto a iscriverlo nel registro delle notizie di reato. A questa iscrizione deve seguire, appena emergano indizi, l’individuazione dei soggetti eventualmente coinvolti, che assumono così la qualifica di indagati. Si tratta, in sostanza, delle persone a cui può essere attribuita la causazione del fatto o che risultano comunque inserite nella dinamica che lo ha determinato.
L’impostazione attuale non consente alcuna discrezionalità nell’avvio del procedimento: ogni cittadino è uguale davanti alla legge, in ossequio all’art. 3 della Costituzione e, pertanto, non si possono introdurre differenziazioni in base al ruolo o alla qualifica rivestita, fatta eccezione per il solo criterio – previsto dallo stesso art. 335 c.p.p. – che distingue tra persone note e ignote.
Tuttavia, proprio questa rigidità normativa, che sul piano teorico garantisce l’imparzialità del sistema, si presta nella prassi a derive problematiche. Il punto critico emerge con forza quando l’iscrizione assume una visibilità pubblica immediata – spesso attraverso i media – generando nell’opinione pubblica una distorsione grave e pericolosa: la sovrapposizione tra l’essere indagati e l’essere ritenuti colpevoli.
La conseguenza è duplice: da un lato si incrina l’immagine di neutralità e terzietà che dovrebbe caratterizzare l’intervento giudiziario; dall’altro, si danneggia profondamente la percezione sociale del lavoro svolto dagli operatori di polizia, i quali agiscono in contesti ad altissimo rischio, spesso in condizioni di emergenza e urgenza, facendo uso della forza esclusivamente nei limiti previsti dalla legge e per finalità di interesse pubblico.
La vicenda che ha visto indagati i due poliziotti intervenuti nel conflitto a fuoco in cui ha perso la vita il rapinatore responsabile dell’uccisione del brigadiere dei Carabinieri Carlo Legrottaglie, così come il caso del Maresciallo dei Carabinieri che la notte dello scorso Capodanno ha ucciso un uomo che aveva accoltellato quattro passanti e aggredito i militari, per il quale la richiesta di archiviazione è arrivata solo dopo sei mesi, mentre il danno reputazionale era già stato consumato. Tali fattispecie rappresentano emblematicamente l’effetto distorsivo di questo automatismo. In questo contesto ci sono varie proposte volte a introdurre correttivi al meccanismo attuale, con l’intento di evitare che l’azione giudiziaria si trasformi, nei fatti, in un processo anticipato a carico degli appartenenti alle forze di polizia. L’obiettivo non è sottrarre taluni soggetti al principio di legalità, ma introdurre un filtro logico e temporale capace di distinguere sin dall’origine i contesti in cui l’uso della forza – pur determinando un evento lesivo – non esprime alcun disvalore penale perché esercitato nei limiti dell’ordinamento. La stessa logica della “non punibilità per fatto tipico ma scriminato” suggerisce di trattare questi casi con un approccio giuridico equilibrato, che non li assimili automaticamente a condotte penalmente rilevanti.
In assenza di un equilibrio più giusto tra l’adempimento del dovere e la responsabilità penale, l’attuale sistema rischia di diventare un disincentivo per chi opera ogni giorno a tutela della sicurezza collettiva. A ciò si aggiunga un ulteriore effetto collaterale preoccupante: la delegittimazione progressiva degli appartenenti alle forze di polizia riduce il rispetto e l’autorevolezza per operare efficacemente nei contesti più difficili, in particolare in quelli ad alta densità criminale, dove si diffonde la percezione – e in certi ambienti si rafforza la convinzione – di un crescente senso di impunità, che alimenta atteggiamenti provocatori e persino aggressivi nei confronti degli operatori in divisa.
A rafforzare la coerenza del sistema, riteniamo che l’intervento normativo debba prevedere forme di garanzia sostanzialmente equivalenti a quelle riconosciute all’indagato in sede di informazione di garanzia. In questo senso, appare necessario assicurare un periodo iniziale in cui la persona interessata non assuma formalmente la veste di indagato, finché non siano effettuate le prime verifiche sulla sussistenza o meno di una causa di giustificazione. Si tratterebbe di un meccanismo di tutela che non sottrae l’operatore al vaglio giudiziario, ma evita che l’automatismo dell’iscrizione determini un impatto personale e professionale sproporzionato rispetto alla fase ancora embrionale dell’accertamento.
È opportuno, inoltre, che il provvedimento non assuma la connotazione di uno strumento speciale, pensato per una sola categoria di soggetti, ma si configuri come misura generale applicabile a tutti coloro che hanno agito in situazioni in cui, con ragionevole evidenza, si possa profilare una scriminante, ancorché da valutare nel merito. La previsione dovrà quindi fondarsi su criteri oggettivi e verificabili, evitando derive interpretative o discrezionalità eccessive, pur nel rispetto dell’autonomia della magistratura.
PROPOSTE AVANZATE
Tra le proposte attualmente al centro del dibattito, emerge con forza quella di istituire un doppio binario per la gestione delle notizie di reato che riguardano appartenenti alle forze dell’ordine. In base a tale proposta, qualora siano fin dall’inizio ravvisabili elementi oggettivi che facciano ritenere applicabili cause di giustificazione – come l’adempimento di un dovere, l’uso legittimo delle armi, la legittima difesa o lo stato di necessità – non dovrebbe procedersi automaticamente all’iscrizione dell’operatore nel registro degli indagati, prevedendo nel contempo la possibilità di partecipare ai relativi accertamenti giudiziari
A rendere effettivo tale filtro, si ipotizza di attribuire la valutazione preliminare dell’iscrivibilità a una figura terza, esterna al pubblico ministero procedente, come ad esempio il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello. In questo modo si introdurrebbe un controllo preventivo di legalità e ragionevolezza, che permetta di accertare sin da subito la sussistenza o meno di una scriminante, evitando iscrizioni pretestuose o inutilmente gravose per chi ha agito nell’ambito dei doveri istituzionali.
Riteniamo questa direzione di riforma pienamente condivisibile. Essa rappresenta una risposta concreta a un’esigenza reale e urgente: garantire agli operatori delle forze dell’ordine un quadro normativo più equo e coerente con la specificità del loro ruolo, senza in alcun modo compromettere le garanzie costituzionali o il principio dell’uguaglianza davanti alla legge.
Non si tratta di invocare privilegi, ma di riconoscere che chi è chiamato ad esercitare legittimamente la forza per conto dello Stato non può essere trattato come chi quella forza la viola. Il rischio, in assenza di un intervento, è quello di alimentare un clima di insicurezza giuridica e operativa, che paralizza l’azione di polizia e mina il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini.
Sappiamo bene che ogni riforma normativa comporta complessità e resistenze, ma ciò non può costituire un alibi per lasciare irrisolta una criticità che impatta direttamente sulla funzionalità del sistema sicurezza. Come dimostra l’evoluzione del nostro processo penale dagli anni ’80 in avanti, infatti anche innovazioni profonde possono essere attuate solo salvaguardando l’equilibrio tra efficienza e garanzie.
SPUNTI DI RIFLESSIONE INTEGRATIVI
Accanto alle proposte di carattere strutturale, riteniamo necessario segnalare alcune misure integrative e immediatamente praticabili, capaci di mitigare i rischi di delegittimazione e di strumentalizzazione che oggi gravano sugli operatori di polizia coinvolti in procedimenti penali per fatti avvenuti nell’esercizio del servizio.
In particolare, si propone di valutare una modifica dell’art. 335 c.p.p., volta a consentire, in modo esplicito e motivato, la secretazione temporanea dell’iscrizione nel registro degli indagati, nei casi in cui essa riguardi appartenenti alle forze dell’ordine per fatti direttamente connessi a interventi d’istituto. Una simile previsione, già coerente con la ratio di tutela dell’efficacia investigativa che sottende l’attuale disciplina, eviterebbe che la semplice iscrizione — spesso dovuta, e non accompagnata da alcun accertamento definitivo — si trasformi in una gogna mediatica che pregiudica l’onorabilità e la legittimità dell’intervento operato, ancor prima che siano acquisite le reali circostanze del fatto.
Questa secretazione per un tempo determinato non rappresenterebbe un privilegio, ma una garanzia commisurata alla natura istituzionale della funzione esercitata, ove l’uso della forza è parte necessaria del dovere e non frutto di un’iniziativa privata. Una tutela mirata, volta a proteggere l’integrità dell’azione di polizia da derive populiste e campagne denigratorie che sempre più frequentemente si alimentano attraverso i social media, generando un clima di sfiducia e di ostilità verso le forze dell’ordine.
Tale misura, tuttavia, risulterebbe inefficace senza una riforma dei tempi e delle modalità delle indagini preliminari. È dunque imprescindibile rafforzare l’organizzazione interna delle Procure, prevedendo — anche in via sperimentale — unità dedicate all’analisi preliminare dei casi che coinvolgono operatori di polizia, con l’obiettivo di pervenire a una valutazione rapida e accurata sulla presenza o meno di profili di responsabilità. La cronica congestione degli uffici giudiziari non può giustificare il protrarsi sine die di situazioni che mettono a repentaglio la credibilità e l’efficacia dell’azione di sicurezza.
In questo senso, ribadiamo il nostro pieno sostegno all’adozione di un modello di indagine a doppio binario, non per creare zone franche, ma per consentire una rapida definizione dei fatti nei casi in cui le condotte siano già qualificabili come scriminate. L’obiettivo è spezzare quel circolo vizioso che oggi costringe migliaia di agenti a operare nell’incertezza, temendo che ogni intervento possa trasformarsi in una condanna anticipata sul piano mediatico, amministrativo o giudiziario.
Accogliamo con favore, infine, l’intervento legislativo che ha previsto la copertura delle spese legali sin dalle fasi iniziali dell’indagine, misura che riconosce almeno in parte la vulnerabilità dell’operatore di polizia di fronte a procedimenti penali complessi e spesso prolungati. Tuttavia, tale garanzia non può sostituire l’esigenza primaria di un sistema giusto ed efficiente, in cui l’azione dell’autorità giudiziaria sia celere, equilibrata e rispettosa della specificità del ruolo che le forze dell’ordine esercitano in nome dello Stato.
La funzione di polizia non è un accessorio della giustizia penale, ma un pilastro della tenuta democratica e della sicurezza nazionale. Garantirne il pieno esercizio significa proteggere, insieme ai singoli operatori, la credibilità stessa dello Stato e l’effettività dei diritti di tutti i cittadini.
Roma, 22 luglio 2025