Negli ultimi due decenni le Forze armate hanno assunto un ruolo crescente nella funzione di tutela dell’ordine pubblico accanto alle Forze di polizia, che da un utilizzo limitato alle sole situazioni di emergenza si è esteso a fattispecie ordinarie come il contrasto alla microcriminalità nelle aree urbane. A questo riguardo, numerosi sono i precedenti del primo decennio degli anni 2000, prima dell’operazione “strade sicure”.

Attraverso l’uso del principio sancito in norma il militare è autorizzato, in casi eccezionali di necessità ed urgenza, ad effettuare immediate perquisizioni sul posto, ai sensi dell’art.4 della legge 22 maggio 1975 n.152.

Infatti, il richiamo a tale principio è stato ripetuto più volte dal legislatore, allorquando si è ritenuto di impiegare i militari nei servizi di ordine e sicurezza pubblica. Così è stato, ad esempio, nel 2005 con la legge di conversione 31 luglio 2005 n.155, del decreto legge 27 luglio 2005 n.144, recante norme in materia di contrasto al terrorismo internazionale. Nel corso della XIV Legislatura si è fatto ampio ricorso alla facoltà concessa dalla legge appena commentata, in connessione con la grave crisi internazionale scaturita dai fatti dell’11 settembre 2001.

I militari cominciarono ad essere impiegati nella sicurezza interna negli anni 90 come risposta dello Stato allo stragismo mafioso con l’operazione “vespri siciliani” dopo gli attentati del maggio e del luglio del 1992 rispettivamente ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ove furono trucidate anche le loro scorte. Tale operazione consentì di indirizzare più uomini e mezzi delle Forze di polizia alle indagini e all’attività preventiva ed informativa contro la mafia; ciò indusse i governi ad impiegare l’esercito anche in Calabria ed in Campania, rispettivamente con le operazioni “Riace” e “Partenope”, essendo queste regioni ad alto rischio per il livello di invasività raggiunto nel tessuto socio-economico da ‘ndrangheta e camorra e per il potenziale offensivo di dette organizzazioni criminali.

Le Forze armate sono state inoltre impiegate nella rimozione dei rifiuti a Napoli nel 2008 per affrontare un’emergenza causata dall’incapacità interistituzionale e politica degli enti locali nel programmare e garantire il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani. In quel periodo si determinarono le condizioni di un grave contesto socio-economico ed ambientale suscettibile di compromettere diritti fondamentali dei cittadini come quello della salute. Con sempre maggiore frequenza si sviluppavano incendi di rifiuti sia presso gli impianti di smaltimento, trattamento e stoccaggio sia nelle pubbliche vie. Gravi erano le ripercussioni sull’ordine pubblico, caratterizzato da scontri quasi quotidiani tra Forze di polizia ed abitanti delle aree interessate dalle discariche ove si sversava l’immondizia. Infine, gli esiti di molteplici procedimenti giudiziari evidenziarono il coinvolgimento della criminalità organizzata nell’attività di gestione dei rifiuti. Per tale motivo occorreva da un lato alleggerire l’impiego delle Forze di polizia in ordine pubblico, sia per indirizzare più risorse all’attività di indagine in merito ai reati commessi nell’attività di raccolta e smaltimento dei rifiuti sia per il controllo del territorio interessato da una cruenta guerra di camorra; dall’altro era necessario ridurre la tensione crescente tra Forze di polizia e popolazioni locali a causa delle manifestazioni contro lo sversamento dei rifiuti in determinate discariche. A questo punto il governo non solo decise di utilizzare i militari nella raccolta delle migliaia di tonnellate di rifiuti lasciati a terra nelle vie partenopee, ma si spinse a dichiarare le discariche aree di interesse nazionale. Se osserviamo con attenzione le condizioni che portarono all’utilizzo dei militari per l’operazione “vespri siciliani” e per la raccolta dei rifiuti a Napoli, constatiamo che esse hanno in comune la caratteristica di essere interessate da una grave emergenza. La prima era relativa alle stragi di mafia realizzate attraverso tecniche offensive particolarmente distruttive, con l’utilizzo di centinaia di chili di esplosivo , tali che le successive indagini dimostrarono che esse andavano inquadrate fra le finalità terroristiche di “cosa nostra”, modalità che il crimine organizzato siciliano tornerà ad utilizzare negli attentati di Roma, Firenze e Milano del 1993. La seconda era causata da un autentico collasso amministrativo interistituzionale degli enti locali nello smaltimento dei rifiuti del capoluogo campano. Il concorso delle Forze armate nelle operazioni “Partenope” e “Riace”, da parte sua, non presenta le caratteristiche proprie di un intervento dovuto ad un’emergenza, ma quelle di un impiego preventivo finalizzato ad alleggerire l’impegno delle Forze di polizia nel controllo del territorio e nella vigilanza alle sedi istituzionali e ad obiettivi a rischio di attentati da parte della criminalità organizzata campana e calabrese.

Iniziò così, dopo la riforma dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza del 1981 che rispose all’avvertita esigenza di smilitarizzare la Polizia di Stato italiana, un lento processo di sfumatura dei confini tra le missioni e le organizzazioni della difesa militare e della sicurezza civile in cui si intravedono anche pulsioni di controriforma. Muta anche la ratio legislativa in quanto si prevede che oltre all’impiego per calamità ed emergenze, i militari possano essere impiegati anche, in circostanze di straordinaria necessità ed urgenza, per compiti specifici. Si arriverà all’operazione “strade sicure” che non ha alcun fondamento in situazioni di reale emergenza per la sicurezza interna. Si tratta piuttosto di un’emergenza relativa alla percezione d’insicurezza dei cittadini, la cui costruzione dipende sempre in larga parte dalle modalità con cui i media riportano le notizie. Al riguardo, Antonio Manganelli è stato inequivoco: «La cronaca nera o comunque il fenomeno negativo fanno più notizia di altri che magari turbano meno la tranquillità della gente […] una delle cause dell’insicurezza diffusa trae origine dal bombardamento di notizie negative […] forse spetta proprio alle istituzioni far capire agli organi di informazione come una notizia può essere proposta in maniera meno devastante sul piano della tranquillità degli utenti dei media». Infatti, «andando a fondo nell’analisi dell’evoluzione dei reati», più di un dubbio si solleverebbe «sul fatto che la sicurezza in Italia costituisca un’emergenza», anzi si concluderebbe che essa sia indotta da fattori esogeni come la propensione dei mezzi d’informazione a “cavalcare” non meglio identificate emergenze “sicuritarie.”

Quindi “strade sicure” appare come un’operazione tesa ad assecondare un’esigenza psicologica relativa alla domanda di sicurezza che proviene dai cittadini. È lo stesso relatore al decreto legge n.92 del 2009 in Commissione Difesa alla Camera dei deputati ad affermarlo, osservando come «tale intervento sia utile come forma di risposta al bisogno di sicurezza che la popolazione italiana avverte sempre più acutamente soprattutto sul piano psicologico […] non si tratta di autorizzare la militarizzazione del territorio […] quanto piuttosto di fornire un’ulteriore presenza rassicurante ai cittadini.

Altro motivo posto a fondamento dell’operazione è quello dei tagli alla sicurezza. Il ministro dell’Interno dell’epoca, infatti, riferendosi all’invio di rinforzi nelle località ove la densità della popolazione sale nel periodo estivo, disse nel giugno del 2008 alla Camera dei deputati che «nel 2007 sono state inviate circa 3.200 unità nel periodo estivo per rafforzare il controllo del territorio; quest’anno, con i tagli previsti al ministero dell’Interno dalla legge finanziaria del 2008, questo contingente è dimezzato. Noi pensiamo, dunque, di utilizzare il contingente militare, circa 1500 unità, per il presidio dei siti sensibili – ad esempio, a Roma tutte le ambasciate – e di liberare così personale da utilizzare per rafforzare, almeno nella misura dello scorso anno, il contingente delle forze dell’ordine nella campagna estiva». In merito, va evidenziato che per la copertura finanziaria sono necessari sessantadue milioni di euro l’anno, spesa oramai divenuta strutturale per il rinnovo sistematico dell’operazione stessa. Si tratta di un impegno finanziario con il quale si sarebbero potuti assumere milleseicento unità nelle Forze di polizia, proprio quelle ridotte dal contingente estivo, che, con un utilizzo razionale, avrebbero avuto effetti positivi maggiori sulla sicurezza reale e non solo su quella psicologica. Inoltre oggi il blocco parziale delle assunzioni rende, almeno nel breve periodo, impraticabile il ritiro dell’Esercito dalle strade.

Nella realtà, purtroppo, constatiamo che ad un livello di insicurezza reale pressoché costante nel tempo, corrisponde paradossalmente una riduzione costante degli organici delle Forze di polizia. Sono addirittura maturate le condizioni per incrementare il numero delle Forze nazionali che si occupano di sicurezza interna, passando dalle attuali cinque Forze di polizia a sei – quella dell’Esercito, appunto – che attualmente si è specializzata nel vigilare ambasciate, sedi istituzionali, abitazioni di personalità a rischio di attentati, piazzali di stazioni ferroviarie, metropolitane periferiche e l’esterno dei centri di accoglienza e di quelli per l’espulsione di cittadini extracomunitari irregolari. Comunque, il passaggio ad un impiego strutturale, autonomo e continuo per il pattugliamento e il controllo del territorio può essere breve con l’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza ai militari e attraverso un’interpretazione estensiva del comma 3 dell’art.89 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.66 che dispone: “Le Forze armate concorrono alla salvaguardia delle libere istituzioni e svolgono compiti specifici in circostanze di pubblica calamità ed in altri casi di straordinaria necessità ed urgenza”.

Peraltro – al di là della carenza organica delle Forze di polizia, indotta dalla politica dei tagli del personale – non è chiaro quali siano ancora quelle esigenze straordinarie in virtù delle quali si protrae ormai da sei anni l’operazione “strade sicure”. Sembra, infatti, che non ci fosse nel 2008 né ci sia oggi alcuna reale motivazione per avviare e prorogare detta operazione. Essa ha assecondato un indirizzo politico che affronta le questioni secondo la logica dell’emergenza e dell’emotività, con programmi e risultati a breve termine. Del resto, nonostante l’impiego dei militari, si è registrato comunque un incremento della criminalità diffusa, in particolare quella di tipo predatorio, che non appare certo fronteggiabile in assenza di politiche ragionate e condivise anche con gli operatori del settore.

L’operazione costituisce una tradizionale azione di controllo del territorio il cui obiettivo è limitato a contesti urbani ben circoscritti e mira a contrastare le condotte devianti con una presenza prolungata ed esibita, più formale che sostanziale, di Forze dell’ordine. Quest’attività è stata accompagnata da una lunga campagna di comunicazione istituzionale sulle reti televisive nazionali. Si tratta di un’esibizione che nel lungo periodo appare rispondere anche ad una pulsione di controriforma dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza. Si sta affermando infatti una corrente di pensiero che, accelerando l’elaborazione sotto l’impulso della crisi economico-finanziaria, tende a far crescere nel modello di sicurezza civile il ruolo dei militari esaltandone la strutturazione sui valori dell’obbedienza, dell’apoliticità, dello spirito di corpo, dell’autosufficienza organizzativa, della preparazione all’uso della forza, della disponibilità di personale giovane ed in continuo ricambio e sull’affievolimento di alcuni diritti, quali la libertà sindacale e di espressione del pensiero. Invero, la classe politica italiana anziché risolvere i rapporti tra la componente dell’Amministrazione civile dell’Interno e quella della Polizia di Stato, che in assenza di un corretto equilibrio incide negativamente sull’organizzazione ed i cui effetti si riverberano sull’efficacia dei servizi, inizia a guardare con interesse l’autosufficienza amministrativo-organizzativa militare. La questione è seria, poiché il mutamento ordinamentale della componente civile che ha previsto ad inizio secolo, con la cosiddetta riqualificazione, il passaggio del personale da un’area funzionale ad altra giuridicamente superiore, senza che si fosse effettuato contemporaneamente un riallineamento normativo dei ruoli e delle carriere del personale della Polizia di Stato, ha comportato un disallineamento che rende difficoltoso e problematico procedere alla equiparazione tra il personale dell’Amministrazione civile e quello della Polizia di Stato, attraverso livelli retributivi e funzionali, con inevitabile ripercussioni sull’organizzazione e sulla preposizione alle articolazioni interne degli uffici.

A complicare una vicenda già di per sé difficile, si aggiunge il fatto che il legislatore ha previsto che le Amministrazioni del Comparto sicurezza e difesa, con la sola esclusione delle Forze armate e dell’Arma dei Carabinieri, si debbano avvalere per il pagamento degli stipendi delle procedure informatiche del ministero dell’Economia e delle Finanze.

Ciò significa che il pagamento delle competenze al personale del Comparto sicurezza sarà eseguito direttamente dal ministero dell’Economia attraverso ruoli di spesa fissa ed altri strumenti rigidi che mal si conciliano con le esigenze operative. Si creeranno inevitabilmente le condizioni per un aumento delle criticità nella gestione complessiva di tutti i ruoli e qualifiche del personale del medesimo comparto, con riflessi diretti sulla operatività, che sarà immancabilmente indebolita.

Sulla questione dell’invecchiamento delle Forze di polizia va evidenziato che con l’art.2199 del decreto legislativo del 15 marzo 2010, n.66, che ha riconfermato quanto previsto dal dpr n.332/97, si è disposto che il reclutamento del personale delle carriere iniziali delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare sia riservato ai volontari in ferma breve. La conseguenza è quella che nelle Forze di polizia l’età media d’ingresso è di circa 25 anni, gli effetti negativi sulla programmazione d’impiego nel medio e lungo periodo sono evidenti, soprattutto in termini di efficacia. Ad esempio oggi è assai difficile infiltrare agenti sotto copertura per contrastare il fenomeno dello spaccio e del consumo di droghe nei rave party, essendo questi raduni frequentati da giovani e/o giovanissimi.

Dunque, se da un lato si apprezza e si garantisce l’ingresso ed il ricambio di forza giovane nei militari, nelle Forze di polizia si impedisce l’assunzione di diciottenni che sarebbero utilissimi in numerosi servizi per garantire la sicurezza dei cittadini. Quindi, la mancata soluzione dei problemi favorisce e predispone politiche di inopportuna espansione dell’impiego dell’Esercito all’interno della società civile, forte anche delle sue esperienze di peace-keeping e peace-enforcement che poco hanno a che vedere con le esigenze delle nostre realtà urbane, ma che, al contrario, possono tendere a confondere un quartiere di Napoli o di Torino con uno di Mostar o di Herat.

Può essere utile riportare i dati relativi all’ultimo concorso per il reclutamento di 2800 agenti della Polizia di Stato, pubblicato sulla G.U. n. 94 del 29.12.2011 – i cui vincitori stanno completando il corso di formazione – dai quali si evidenzia che l’età media è di 24 anni e 7 mesi.

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Anno Totale Età nascita
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1981 1 32
1982 33 31
1983 60 30
1984 91 29
1985 148 28
1986 273 27
1987 321 26
1988 384 25

L’inserzione “contro natura” di reparti militari nella gestione della sicurezza urbana contrasta con lo spirito e le finalità di tutte le attività di “polizia di prossimità” faticosamente sostenute dall’Amministrazione negli ultimi anni. Le stesse discrepanze si riscontrano rispetto al modello di polizia “civile” teorizzato da Sir Robert Peel, espressamente orientato a sfavore della presenza di militari per le strade delle città e di cui dovremmo prepararci a celebrare il centenario della fondazione, che rappresenta “il” modello di polizia di tutti i Paesi cosiddetti civili. Un modello, per di più, che ad ogni piè sospinto viene ribadito anche in ambito comunitario dall’Unione europea e dal Consiglio d’Europa come l’unico da mantenere per la sicurezza interna delle nostre realtà nazionali.

Si tratta di perplessità di certo non solo nostre, considerato che, ad esempio, Alvazzi scriveva, a proposito di determinate modalità di far polizia: «il sistema di prevenzione e controllo messo in atto dalle forze dell’ordine può essere efficace ma non sempre rassicurante: mentre da un lato una forte presenza di polizia sulle strade e nei quartieri può avere un buon effetto nella riduzione di fatto della criminalità, dall’altro può far percepire al cittadino uno stato di allarme superiore alla realtà».

Paloscia ricordava che, davanti alle gravi tensioni degli anni 90, il prefetto Parisi emanò una circolare che ribadiva la funzione della polizia come mediatrice e pacificatrice. Si trattava di una linea strategica basata su riflessioni in atto ormai da tempo all’interno del Dipartimento: «Questa linea strategica, che ha consentito alla polizia di non farsi trascinare nel baratro delle violenze durante il Sessantotto e negli anni Settanta e Ottanta, potrebbe essere compromessa negli anni Novanta dall’impiego sempre più frequente ed esteso dell’esercito nelle operazioni di ordine pubblico. […] L’utilizzazione dell’esercito è stata un’inutile esibizione sull’Aspromonte contro i sequestratori, ha funzionato in Sicilia dopo i delitti Falcone e Borsellino per presidiare edifici pubblici, ma per evitare guai si è dovuto far sorvegliare le pattuglie dei militari dagli allievi della scuola della PS di Bolzano, traslocati in massa a Palermo. C’è una differenza sostanziale tra il comportamento in ordine pubblico dei soldati e quello dei poliziotti».

La recente analisi della Fondazione ICSA relativa alla razionalizzazione della sicurezza interna evidenzia la necessità di «evitare per quanto possibile l’impiego di militari delle Forze armate per il pattugliamento dei centri urbani, fine a se stesso, poco influente sulla sicurezza reale e talora negativo sul piano della sicurezza percepita (Operazione “Strade sicure”). In linea più generale, evitare l’anomalia dell’intervento delle Forze armate se non quando si rendano indispensabili contributi di sorveglianza di obiettivi fissi».

Da parte loro, Carrer e Dionisi sottolineavano a proposito della presenza di militari nel controllo del territorio, che «é evidente che il loro eventuale impiego in attività di ordine pubblico all’interno del proprio paese stride con l’atteggiamento di coinvolgimento e di mediazione richiesto alle forze di polizia comunque coinvolte nel sistema di prossimità, facendo passare messaggi ambigui e approfondendo il fossato fra realtà e atteggiamenti ci- vili e militari». Carrer, inoltre, evidenzia che «se sempre più sfumate si presentano per certi aspetti le differenze tra corpi di polizia a status civile e militare, altro è l’impiego sempre più frequente di militari in servizi di sicurezza interna. Si tratta di un impiego che si giustifica sul piano ideologico, in quanto sostenuto da chi si è sempre erto a difesa del militarismo più che della militarità, e sul piano pratico, per integrare con indennità di ordine pubblico lo stipendio di personale che vorrebbe sempre un impiego in missioni “oltremare”». A ciò è possibile aggiungere che «questo presenzialismo è legato anche all’attuale momento storico, caratterizzato dalla contrazione degli organici nell’ottica di una revisione globale della dottrina della difesa nazionale. Gli uni rispondono alle proprie tendenze ideologiche e gli altri alla necessità di preservare una struttura sottoposta a tentativi di ridimensionamento».

Alla fine, però, la Polizia di Stato ed il Ministero dell’Interno vengono particolarmente penalizzati, a causa di questo lento processo di militarizzazione della sicurezza, nelle manovre finanziarie e nelle leggi di stabilità di questi ultimi anni.

Roma, 18 ottobre 2013

Enzo Marco Letizia