Quarantuno anni fa, in una strada di Roma, dentro a una macchina venne rinvenuto il corpo di Aldo Moro dopo una prigionia durata 55 giorni che segnò per sempre il Paese.

Oggi si può affermare che il Paese dimostrò coraggio, fermezza ed unità nel battere il terrorismo delle Brigate Rosse e lo stragismo nero. E’ doveroso riconoscere che quella lotta fu  vinta anche grazie alla lungimiranza e al fiuto politico e forse visionario di Moro, grazie a quel disegno che vedeva nel dialogo promotore di coesione e di collaborazione attiva delle forze, partiti e istituzioni, popolo e Parlamento, il motore per lo sviluppo della democrazia e della società, sicura, armoniosa, compatta intorno agli ideali e ai principi costituzionali.  “La costruzione democratica dello Stato – diceva– non è un punto di arrivo, ma solo un punto di partenza.  Perciò, sosteneva, senza disconoscere la grandiosità del fenomeno per cui esso appare felice superamento di egoismi, affermazione di un’ideale, espansione nella giustizia delle personalità umane, bisognava dunque lavorare incessantemente rinunciando  anche alla più piccola delle concessioni, anche alla più innocente delle facilità di fronte a un’opinione pubblica giustamente sempre più esigente. Altrimenti la reazione, ammonì proprio nel congresso del Partito in quel marzo 1976, invece che mettere in discussione uomini e partiti, potrebbe chiamare in causa le libere istituzioni”.

Sono parole profetiche le sue, quelle di un uomo che sapeva guardare lontano, consapevole dei  rischi di scelte che mirano a salvare l’esistente anziché al rinnovamento,  e dei pericoli per chi ricopre incarichi al servizio della collettività nel farsi condizionare dalle posizioni raggiunte dimenticando le responsabilità e il patto stretto con i cittadini e soprattutto con le nuove generazioni.

Questo pensiero rivolto ai giovani, alle loro fragilità rispetto a un futuro che dopo gli anni della ricostruzione e del boom sembrava forse meno promettente e carico di aspettative di successo e affermazione personale,  ritorna nelle sue lettere dalla prigionia, fin troppo esplorate e spesso usate ed abusate, ma che ben oltre l’aspetto squisitamente privato per quel che riguarda le missive destinate alla consorte o quello così tragico della sua consapevolezza di essere vicino alla morte, riecheggiano tutte le questioni morali, politiche e sociali che erano quello che gli storici hanno definito il suo “rovello” di statista e di uomo.

Per questo con parole diverse e sia pure con carcerieri e carnefici uguali per determinazione criminale, diversi per epoca e provenienza, le leggiamo oggi con la stessa partecipazione emotiva e umana con la quale leggiamo quelle di condannati a morte della Resistenza, quando Giordano Cavestro, poco meno di 20 anni, scrive ai compagni di lotta:  “La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.  Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care”. O quando Giancarlo Puecher  Passavalli (anche lui a 20 anni)  dice che l’ha amata la sua Patria: “non la tradite, scrive, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale.  Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia”.

Fin troppo spesso si dice che è infelice e ingiusto il Paese che ha bisogno di eroi: né quei ragazzi né quel leader che sapeva guardare oltre il presente si sentivano eroi e nemmeno martiri, ma semplicemente uomini che avevano fatto propri gli ideali di libertà, unità e giustizia.

A 41 anni di distanza da quel terribile giorno che ha rivelato il buio fanatico di chi uccidendo un uomo voleva colpire la democrazia può confortare leggere un brano di Aldo Moro che suona come una lezione e un incoraggiamento, anche per noi che ogni giorno quella democrazia e i diritti che ne sono i capisaldi la difendiamo in nome e insieme ai cittadini:  “Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo”.

Queste parole sono una lezione  di storia e di democrazia che dedichiamo alle oltre 400 vittime del terrorismo ed a quei 100 uomini in divisa che sono stati assassinati dalla consapevole e imperdonabile follia dei terroristi.

Roma, 9 maggio 2019

Enzo Marco Letizia

Editoriale Moro