Come nella famosa storiella orientale, pare che Emmanuel Chidi Nadi avesse un appuntamento con la morte, cui era sfuggito in passato (aveva seguito le rotte perigliose dei migranti fino alla Sicilia, dopo che i terroristi di Boko Haram gli avevano ucciso la figlia di due anni e devastato il villaggio), per incontrarla una sera d’estate a Fermo, quando un gruppo di uomini, noti per l’appartenenza a gruppi ultras violenti, lo ha aggredito e ammazzato di botte, dopo che aveva cercato di difendere la moglie, oggetto di epiteti razzisti. L’avevano chiamata “scimmia”, non diversamente da come tempo fa un senatore aveva apostrofato una ministra in carica, perché, secondo il principale accusato, si usa dire così allo stadio, dove vengono inalberati striscioni con slogan razzisti, si inneggia ai lager, all’Etna perché distrugga il sud e si fischiano i calciatori di colore.
È doveroso che si faccia chiarezza sull’episodio.
È doveroso che non si criminalizzi una pacifica città.
È doveroso condannare ogni speculazione, a cominciare da quelle che considerano l’emergenza creata dalla massiccia presenza di immigrati irregolari una provocazione che legittima reazioni xenofobe.
È doveroso che questo episodio sia occasione di una riflessione che investa tutta la società: da anni forze e organizzazioni politiche hanno fatto del rifiuto e dell’emarginazione un contenuto propagandistico ed elettorale, nutrendo diffidenza e risentimento nei confronti di chi verrebbe qui a portarci via lavoro, pane e assistenza – gli stessi, però, cui invece ci affidiamo proprio per la cura delle persone più vulnerabili e più care, gli stessi che svolgono mansioni faticose, sottopagate, senza garanzie di sicurezza e senza contratto, oggetto di speculazioni e sfruttamento, nei paesi di origine e qui dove hanno cercato rifugio da guerra o miseria – alimentando e autorizzando sentimenti discriminatori, in altri tempi inconfessati e vergognosi.
Ma è doveroso ricordare a tutti che l’azione criminale commessa da un individuo con precedenti noti, accusato oggi di omicidio con l’aggravante di finalità razziste, non deve indurci a pensare che l’Italia sia un Paese xenofobo, dove vige il pregiudizio nei confronti degli “altri”, dove è permesso discriminare, usare prepotenza, vessare, come malinteso risarcimento nei confronti di coloro cui verrebbe usato un trattamento di favore per motivi ideologici o per “buonismo”. Non c’è buonismo nella giustizia, nella solidarietà e nella compassione.
E ci sentiamo di dirlo proprio noi, che svolgiamo delicati incarichi nelle complesse procedure dell’accoglienza, che ogni giorno entriamo in contatto con la disperazione di chi ha lasciato la propria terra per arrivare dove pare che nessuno lo voglia, con lo spaesamento di chi sa che troverà muri e reticolati alzati per tenerlo fuori.
Lo ricordiamo noi che ogni giorno sentiamo al nostro fianco cittadini responsabili e generosi, amministratori solerti e attenti, che non pesano col bilancino gretto del consenso, la civile e umana ospitalità, colleghi che si prodigano in condizioni difficili e a volte ostacolate dalla reazione di qualche comunità che, legittimamente, manifesta perché la presenza degli immigrati può diventare insostenibile se non si accompagna a misure efficienti di ricovero, cura, assistenza, igiene, controllo.
Sì, i razzisti ci sono, respirano la stessa aria velenosa che c’era durante il regime fascista, quando era necessario trovare un nemico verso il quale convogliare quel malcontento e quell’odio che germinano e crescono più forti in tempi di crisi economica e morale.
Però l’Italia non è un paese razzista. Lo dimostrano i cittadini di Lampedusa, i volontari che a centinaia si dedicano all’accoglienza, i nostri figli che in classe si abituano a non prestare attenzione al colore della pelle dei compagni, alle loro merendine diverse dalle nostre, alle loro preghiere in lingue sconosciute. Lo dimostrano i nostri concittadini che danno e chiedono rispetto delle leggi, tutte, quelle dei codici e quelle morali e umane, e da parte di tutti, italiani e non, per non essere mai condizionati dalla paura, dal pregiudizio, dall’ignoranza.

Roma, 8 luglio 2016
Lorena La Spina