65-2copertina

I ringraziamenti del Presidente 70-napolitano.

E’ opinione consolidata che la sicurezza rappresenti un’esigenza centrale della vita dei cittadini.
Ma c’è da chiedersi quale sicurezza per rispondere alla paura, al sospetto, alla diffidenza dei cittadini.
Intorno a questo interrogativo l’Associazione Nazionale Funzionari di Polizia ha promosso uno studio sulle politiche della sicurezza urbana, analizzando le modalità del controllo del territorio e la necessità della certezza della pena, con l’intento di porre le basi per una riflessione tecnica e giuridica, profonda e consapevole, al fine di contribuire al dibattito in corso nel Paese.
Scegliendo la dimensione locale, quella nella quale la Polizia di Stato svolge quotidianamente la propria azione, privilegiando la prossimità con il cittadino, fatta anche di ascolto delle esigenze e delle aspettative rappresentate, la più congrua, quindi, per svolgere una riflessione adatta a contribuire al dibattito in corso e per misurare l’efficacia di politiche, interventi e sperimentazioni.
E ciò nella convinzione che la dimensione locale costituisca il territorio privilegiato da cui partire per una profonda riedificazione civile e democratica e per un consapevole rafforzamento di sentimenti di solidarietà sociale, componente indefettibile nel processo di “produzione” – da parte delle istituzioni – di una sicurezza realmente democratica e partecipata.
Gli operatori della sicurezza possono esserne motori, grazie al loro radicamento nel territorio, alla loro consuetudine all’ascolto, al loro contatto quotidiano con i bisogni e le aspettative, con le istanze e le critiche dei cittadini.
Nel confronto che si è tenuto durante il nostro seminario si sono avvicendate analisi che rispecchiavano luci ed ombre, aree di crisi e casi di eccellenza in grado di darci conforto nel percorso verso una concezione nuova e moderna di sicurezza. Che, come è stato sottolineato nei contributi appassionati di Marco Andrea Seniga e di Elena Fiore, non può limitarsi unicamente al contrasto a fenomeni di criminalità, poiché l’allarme sociale e il senso di insicurezza vengono alimentati non solo dai reati, ma anche da comportamenti incivili e da fenomeni di degrado fisico, urbano e sociale.
Una situazione che necessita quindi della costruzione di una cultura della sicurezza e dell’armonia sociale che deve andare di pari passo con processi di inclusione interculturale e intergenerazionale, con la comprensione di fenomeni complessi, dalle tendenze urbanistiche e abitative, ai mutamenti demografici, dalla conciliazione delle differenze culturali e religiose alla promozione di azioni per l’abbattimento delle disuguaglianze e per il superamento del “senso di ingiustizia”.
Il territorio è dunque l’arena dei conflitti, rappresenta la scala per misurare e mettere alla prova gli indicatori del malessere, è lo scenario nel quale si consumano reati, trasgressioni, comportamenti irregolari o illeciti.
Elena Fiore fa emergere con evidenza la questione della terzietà e dell’imparzialità dell’azione della polizia locale denunciando, ad esempio, le pressioni degli amministratori locali finalizzate a non far intervenire con azioni repressive gli addetti al controllo sull’abusivismo commerciale «che non deve intendersi unicamente come la vendita di prodotti su area pubblica da parte di soggetti, in genere extracomunitari, privi di titolo autorizzativo commerciale, ma anche come quelle forme, più occulte, di irregolarità» nei centri commerciali. Si tratta di una criticità di primaria importanza, poiché la polizia locale, oltre al commercio, ha competenze dirette sui controlli edilizi, ambientali ed in genere su ogni attività di rilascio di licenze e concessioni da parte dell’ente comunale che sono l’oggetto principale delle corruzioni poste a base dei decreti di scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose.
L’intervento della mafia nell’economia non solo corrompe il tessuto sano dell’economia legale, alterando i meccanismi concorrenziali e gli equilibri di mercato, ma crea aree di consenso sociale all’interno delle quali si generano perversi ed innaturali rapporti in cui sembra smarrito definitivamente il senso delle regole: si rompe il confine tra aggressore e vittima.
Sicurezza in questo caso significa rompere questo circuito che non corrompe solo il tessuto economico, ma contagia quello sociale creando un clima di tolleranza, se non addirittura complicità, della illegalità.
La nuova forma organizzativa che ha assunto il sodalizio tra malavita e mondo dell’impresa – ricordano numerosi contributi alla nostra pubblicazione – si fonda anche su una cultura negativa che colloca il denaro al primo posto nei valori di riferimento e sul consolidarsi di sofisticati sistemi finanziari, mutuati dalla “turboeconomia” che operano il trasferimento del denaro illecito verso imprese apparentemente estranee ad ogni diretto collegamento con la criminalità, per effetto di continue variazioni di organigrammi societari, creazione di gruppi societari nonché aggregazioni di imprese.
In questo contesto il complesso rapporto mafia-impresa, di per sé già deleterio, degenera ulteriormente per l’ingresso di un terzo protagonista, la Pubblica Amministrazione che, per i cospicui capitali che è in grado di mettere in circolazione, rischia di diventare il più grande fornitore di liquidità per la criminalità organizzata.
Non vi è settore della Pubblica Amministrazione nel quale le indagini non abbiano registrato e dimostrato il dispiegarsi dell’illecita influenza dei gruppi di stampo mafioso, direttamente ovvero per il tramite di figure imprenditoriali o politiche espressive degli interessi di costoro. Così, non vi è indagine su organizzazioni mafiose che non riveli preoccupanti fenomeni di penetrazione corruttivo-collusiva nelle istituzioni.
È certamente una terminologia forte, ma, come sottolineano i contributi al dibattito di nostri operatori, è utile ad evidenziare un diffuso clima di condizionamento mafioso delle amministrazioni, condotto attraverso l’infiltrazione negli organi elettivi e nella burocrazia che, divenendo rappresentativi degli interessi dei gruppi affaristico-criminali o essendo espressione diretta di questi, provvedono, attraverso l’infedele attività, a compiere l’opera di esautorazione di tutto il complesso normativo diretto a garantire, in particolare, la legittimità delle procedure ad evidenza pubblica di individuazione del contraente e le successive fasi di sviluppo delle opere e dei servizi pubblici.
In realtà le organizzazioni criminali si assicurano un ulteriore vantaggio che è quello del controllo delle attività economiche sul territorio di pertinenza nonché la possibilità di dispensare lavoro a singoli e piccole imprese, garantendosi così il consenso sociale e quindi una rilevante influenza elettorale che le consente di interloquire con rappresentanti del mondo politico e amministrativo disponibili alla corruzione, scambiando la propria disponibilità per assicurarsi il serbatoio di voti in dotazione.
Ad aggravare la condizione di instabilità legalitaria nelle città contribuisce la presenza dei fenomeni legati all’immigrazione clandestina, non solo per la pressione esercitata da individui che vivono in condizioni disumane di emarginazione e indigenza e per la ingente quantità di reati minori commessi, ma anche, come sottolinea nel suo contributo Filippo Bellagamba, per il crearsi di una deriva securitaria che mette in atto meccanismi perversi di repressione indifferenziata e inefficace, relegata al contesto penale e al ricorso alla pena detentiva.
Anche in questo caso, lo ricorda Mario Patrono, è accertata la presenza della malavita che esercita un governo criminoso e una gestione schiavistica degli irregolari occupando con una forza lavoro ricattata e minacciata una molteplicità di attività economiche, commerciali e in tutto il terziario.
Come è quasi fisiologico, la contiguità delle strutture burocratico-amministrative a soggetti appartenenti alle organizzazioni criminali si riscontra quasi sempre in corrispondenza di gravi ed accertate deficienze organizzative e di consunzione delle amministrazioni pubbliche.
Perciò, la sfida è difficile anche perché in questo clima si combinano insicurezza, diffidenza e incertezza: hanno perso credibilità l’interlocutore istituzionale, gli organi di vigilanza e controllo, l’intera impalcatura del Law enforcement.
Questa pubblicazione nata dalla rielaborazione di due giornate di lavoro, intende contribuire alla proposta di un progetto globale per la sicurezza. Che metta in campo competenze, idee, azioni e misure. Ma che impieghi opportunamente strumenti, istituti e organismi esistenti.
Esistono già, lo ricorda Carrer, alcune esperienze positive, dai Protocolli d’intesa e dai Contratti di sicurezza, agli accordi tra Regioni e Ministero. Ma fino ad oggi non sono state sfruttate adeguatamente e ora, minacciate dalla crisi e dalla disattenzione colpevole dei governi che non considerano le risorse relative a professionalità e strutture un investimento prioritario per la sicurezza e lo sviluppo del Paese, rischiano di diventare addirittura ostacoli o freni burocratici allo svolgersi di azioni coordinate relative alla soluzioni di situazioni di emergenza.
Scarse risorse economiche, limiti organizzativi, resistenze sottoculturali, recenti e prossime misure normative circoscrivono ed erodono le potenzialità del patrimonio informativo derivante dall’attività di ascolto e controllo del territorio. Con il rischio di interrompere quelle nuove o rinnovate forme di assistenza e di collaborazione tra forze di polizia e cittadini che si sono sviluppate in questi anni.
Forme mature sono state avviate, lo sottolinea Luciano Vandelli, dal legislatore costituzionale con «il dovere di collaborazione, da parte dello Stato, delle regioni, degli enti locali nell’ambito delle rispettive competenze, al perseguimento delle condizioni ottimali di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini». Ma necessitano di risorse, formazione del personale, circolazione delle informazioni, coordinamento pena l’insuccesso.
I contributi di Vandelli, come del questore Tagliente, ricordano casi di eccellenza incoraggianti: prima in modo sperimentale poi in forme consolidate, si sono realizzati patti che «hanno visto convergere competenze, personale, risorse statali, regionali e comunali nel condiviso obbiettivo di contrastare fenomeni d’insicurezza, recuperare aree degradate, migliorare le condizioni di vita e la percezione della sicurezza da parte dei cittadini».
Alla frammentazione del tessuto sociale, all’indebolimento del senso di appartenenza, all’apatia politica e alla disaffezione della democrazia, a una inquietante tolleranza crescente di criminalità e corruzione, alla preoccupazione per il diffondersi di forme di trasgressioni nuove, al ripetersi di risposte violente a qualsiasi forma di conflitto, non si può certo rispondere opponendo la falsa “sicurezza” del ricorso al “sistema” penale e alla soluzione detentiva.
L’Italia, nell’ultimo decennio, non ne è stata immune ed il suo legislatore in perenne emergenza, come scrive Filippo Bellagamba, ha costellato la produzione normativa penalistica «di una pluralità di pacchetti sicurezza, al punto che non è parso eccessivo parlare di un sistema asistematico di giustizia emotiva che, traendo spunto da fatti di cronaca giudiziaria particolarmente cruenti o ricorrenti – a cui il potere esecutivo, in particolar modo, tenta di dare ciclicamente soluzione – si fonda su una pletora di norme particolarmente rigorose ed inflessibili, le quali tuttavia spesso mostrano un’altrettanto inflessibile incapacità di essere efficaci e di conseguire lo scopo per cui sono state introdotte. Sicurezza è divenuta così la parola d’ordine o, se si preferisce, la parola magica per dare soddisfazione ad un impellente bisogno di tranquillizzare l’opinione pubblica, rassicurandola sulla efficienza (reale o soltanto ipotizzata) e tempestività della lotta a fenomeni diversi, aventi come denominatore comune quello di suscitare notevole allarme sociale, nella prospettiva di ostentare all’elettorato un attivismo repressivo che tuttavia, di sovente confligge con l’adeguatezza del rimedio proposto e con il risultato realmente ottenuto».
La creazione di uno stato di emergenza permanente è diventata una pratica e lo stato di eccezione costituisce il paradigma di governo dominante in molti paesi occidentali. La crisi di rappresentatività politica comporta sempre più una dislocazione dei conflitti che inevitabilmente finiscono per riversarsi irrisolti nella sfera penale. I cittadini vorrebbero essere immunizzati. L’attuale domanda di sicurezza sottintende una visione del mondo fondata sul binomio amico-nemico e traccia in tal modo il solco all’interno del quale s’inscrivono necessariamente le risposte politiche.
Di qui la necessità di un progetto per la sicurezza da parte della classe politica italiana, che uscendo dalla logica dell’emergenza, indirizzi verso forme più civili di convivenza a cominciare dal territorio.
La disciplina vigente consente di dare un’articolata risposta al bisogno dei cittadini e corrisponde, come evidenzia Luciano Vandelli, «alla complessità sostanziale delle questioni: i sintomi di degrado, i fenomeni di insicurezza urbana hanno una natura complessa e composita e richiedono inevitabilmente, per loro natura, delle risposte composite, che mobilitano diversi strumenti giuridici (tra cui le ordinanze contingibili e urgenti del sindaco), varie istituzioni, molteplici tipi di politiche pubbliche: che, ben al di là delle stesse competenze in materia di polizia amministrativa locale, coinvolgono tematiche e politiche tipicamente locali, a partire da quelle sociali, edilizie, urbanistiche, del traffico e della mobilità, ecc. ecc., da modulare e collocare in una prospettiva di contemperamento, di collaborazione e, se del caso, di integrazione con le competenze di altri soggetti, a partire dalle attività statali che riguardano l’ordine pubblico e la sicurezza».
Gian Domenico Comporti sottolinea che «all’interno dell’ordinamento nazionale si assiste allo sviluppo di un sistema integrato di sicurezza che appare in linea con il principio costituzionale di sussidiarietà verticale. Per un verso, infatti, la materia di competenza statale ordine pubblico e sicurezza intercetta diverse altre materie di competenza regionale e locale come la tutela del lavoro, le professioni, la tutela della salute, il governo del territorio, i porti e aeroporti civili, i servizi sociali: tanto da fare dubitare che di vera e propria materia si tratti piuttosto che di nozione trasversale, a carattere plurale e relazionale, che si risolve in un sistema interconnesso di misure diverse. Per altro verso, il tendenziale spostamento a livello comunale delle funzioni amministrative deputate a fornire primaria risposta alle esigenze manifestate dalle collettività locali, ha concorso ad individuare nei singoli contesti urbani gli ambiti geografici e valoriali di riferimento delle politiche si sicurezza».
Il decisore dovrà dunque porsi l’obbiettivo di una disciplina unitaria e coordinata sul territorio – in una logica che garantisca l’autonomia finalizzata a dar soluzione alle questioni della sicurezza nel luogo, nelle circostanze e nel momento d’interesse – come d’altra parte é stato confermato dalla stessa Corte Costituzionale. Secondo la quale “la materia sicurezza non si esaurisce nell’adozione di misure relative alla prevenzione e repressione dei reati, ma comprende la tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone, e quindi la salvaguardia di un bene che abbisogna di una regolamentazione uniforme su tutto il territorio nazionale”.
Ne fa tesoro l’analisi di Comporti che conclude: «viviamo in modello di sicurezza di tipo situazionale che, in luogo di quello posizionale del passato, mira a governare non solo la devianza criminale ma anche le cause dei fenomeni di insicurezza percepiti a livello locale attraverso l’affinamento della capacità di collocarsi in presa diretta con i problemi piuttosto che affidandosi alla posizione attribuita ai centri di competenza entro un astratto disegno organizzativo».
Evidenziando, però, due criticità: «da una parte, più gli strumenti di azione si avvicinano ai contesti che alimentano i circuiti politici elettorali locali più rischiano di caricarsi di impropri contenuti ed appare, allora, necessario recuperare il senso del limite e dello scopo della funzione, come testimonia lo scatenamento di ordinanze regolatorie cui stiamo assistendo per effetto dell’ampliamento del potere sindacale di cui all’art. 54 del TUEL. D’altra parte, quanto più le strategie di intervento si diversificano e si parcellizzano, tanto più appare necessario un consapevole investimento in mezzi, personale e conoscenze onde evitare che il pluralismo degli strumenti si traduca in dilettantismo».
Perciò il coordinamento dei distinti livelli di governo territoriale è essenziale per garantire la sicurezza nelle città e nel territorio extraurbano.
Lo ricorda Marco Andrea Seniga, nell’illuminare il ruolo della Regione dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e che postula un progetto di normazione regionale volta a fornire una sorta di “quadro di disciplina” per i regolamenti comunali e che fornisca un indice sistematico delle condotte e dei comportamenti rilevanti ai fini dell’ordinato svolgersi della vita delle comunità locali da disciplinare nella regolamentazione comunale.
In tutto questo contesto sia il prefetto sia il questore sono la cerniera, l’una d’indirizzo politico, l’altra tecnico operativa, tra Stato ed Autonomie locali.
Francesco Tagliente ben evidenzia che con l’adozione del modello organizzativo del coordinamento si è realizzato un indirizzo unitario in cui sono garantite le autonomie degli organismi coordinati, attraverso due strumenti: il primo è dato dal comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica; il secondo, nato da una prassi concertativa, è il tavolo tecnico del questore ove si pianificano gli interventi.
L’esperienza fiorentina – in particolare quella del tavolo tecnico – ha consentito un costante flusso informativo, sia orizzontale che verticale, sia ascendente che discendente tra gli enti locali, le forze del’ordine e la società civile, che ha portato ad analizzare e prevenire con efficacia le criticità possibili, soprattutto nelle manifestazioni pubbliche.
Tagliente osserva che nessuna «Forza di polizia potrà mai garantire quello che la gente può offrire senza alcun costo. Il cittadino vive il quartiere o la strada. Gode di un punto di osservazione privilegiato che gli consente di osservare le dinamiche che lo circondano e notare tutto ciò che di anomalo succede», perciò «conquistare la sua fiducia significa riuscire a monitorare meglio e in modo capillare ciò che succede in città e, dove possibile, poter intervenire per prevenire le situazioni a rischio».
Dal canto suo, Mauro Mancini, sottolinea al riguardo la necessità che il tavolo di pianificazione dell’Autorità provinciale di pubblica sicurezza, tecnico-operativa, passi da una fonte d’indirizzo amministrativa ad una di rilievo normativo per superare i limiti propri di uno strumento originato da una prassi amministrativa. Mancini ribadisce che «l’esperienza di detto modello relazionale intersoggettivo non può essere lasciata alla sola gestione dei “grandi eventi”, ma deve essere mutuata anche negli ordinari rapporti sul territorio tra tutte le componenti che sono chiamate direttamente o indirettamente a concorrere ad attuare quei servizi volti a garantire una serena convivenza civile, sia nell’ambito della sicurezza pubblica, così come nell’ambito della sicurezza urbana».
L’apertura a tali modelli tecnici di coordinamento amministrativo generale in seno ai Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, e tecnico operativo in seno ai tavoli tecnici, porrebbe in essere stabili organismi consultivi, la cui attività sarebbe prodromica alle scelte operative e ne eliminerebbe eventuali sfaldature, disarticolazioni, inutili sovrapposizioni e lesioni di ambiti di competenza.
Lo conferma Francesco Tagliente nel proporre come nuovo modello di sicurezza quello del partenariato, dove la condivisione delle informazioni esce dalle sedi tecniche per porsi sul piano dei rapporti con i cittadini, per garantire in particolare la massima accessibilità del cittadino agli uffici di polizia, dall’interazione personale a quella tramite il web. È una sperimentazione che ha già dato risultati confortanti, coinvolgendo associazioni di categoria e rappresentanti dei settori più a rischio con i quali la polizia si è confrontata sulle questioni della sicurezza fiorentina per attuare sinergie informative.
Il metodo utilizzato ha permesso di far coincidere nel 2009 la tendenziale riduzione dei reati con un aumento della percezione della sicurezza.
Il dibattito da cui trae origine questa pubblicazione ha portato a esaltare alcuni contenuti già incontrati nei nostri momenti di riflessione e che le forze di Polizia conoscono per via del confronto quotidianamente condotto con essi come “normali” cittadini, ed ancor più nel corso del lavoro di operatori della sicurezza.
Ricorda Vittorio Borraccetti che contribuisce al clima di diffidenza e incertezza dei cittadini rispetto a alcune forme di criminalità, anche il sospetto che esistano nel nostro ordinamento troppi benefici penitenziari che finirebbero per neutralizzare la cosiddetta certezza della pena e quindi l’efficacia deterrente della sanzione penale. In verità, si interroga Borraccetti, occorrerebbe verificare se sia vero che esiste davvero un nesso tra disciplina dell’esecuzione della pena e sicurezza – intesa come condizione della vita sociale in cui ogni persona è e si sente tutelata nei suoi beni e interessi, integrità personale, patrimonio – se sia vero che quella disciplina accusata di lassismo, determini un aumento dei reati commessi e quindi contribuisca all’insicurezza.
Azzarda una risposta Carrer, ricordando «la complessità del fenomeno-sicurezza e delle modalità di costruzione da parte di ciascuno di noi delle proprie insicurezze». Modalità che aumentano e si complicano se, come correttamente deve essere, si decide di affrontare i temi della sicurezza e dell’insicurezza nell’insieme più ampio e complesso di quelli della legalità e della qualità della vita.
Così facendo è facilmente comprensibile che numerosi devono essere, e fortunatamente sono, gli attori interessati alla soluzione di questi problemi, ciascuno con le proprie tradizioni e competenze. E altrettanto numerose sono le competenze relative alla gestione dei problemi sopra ricordati, ostacolati nella loro operatività per la mancanza di un effettivo coordinamento fra le diverse istituzioni e di una concreta capacità di collaborazione che, malgrado gli sforzi messi in atto, sono ancora lontani dall’evolversi e compiersi.
Come scrive ancora Carrer, «non esistono risposte univoche e neppure vincenti. Le risposte vanno costruite giornalmente, in base ai problemi che si vengono a porre e alle risorse disponibili. È necessario che i problemi siano analizzati e le risorse gestite in maniera coordinata in vista del bene di tutta la comunità, ai diversi livelli in cui questa è organizzata e gestita. Per questo è necessario un confronto costante fra tutti coloro che – politici e tecnici – sono istituzionalmente interessati, e naturalmente, nell’ambito delle modalità previste, con l’insieme di tutti i cittadini. È però necessario migliorare il sistema di coordinamento, trovando gli strumenti più adeguati per lavorare proficuamente».
Come sottolinea Carrer la gestione dell’insicurezza dei cittadini e del contrasto alla criminalità rappresenta un problema complesso, incrementato da un abbassamento del livello di etica individuale e collettiva e dalla tendenza a distinguere sempre più il proprio interesse personale da quello della comunità in cui si vive.
È indispensabile quindi collocare il tema della sicurezza come caposaldo della democrazia e operare per ricreare condizioni di responsabilità, partecipazione, condivisione, pena l’erosione della coesione sociale, l’impoverimento dei legami di solidarietà necessari a una crescita equilibrata della società e alla tutela di dignità e libertà individuali e collettive.
Per questo, ribadisce Carrer, occorre lavorare insieme – Stato centrale ed Enti locali, forze di polizia e magistratura, volontariato e cittadini, gestori dell’informazione, eccetera – approfondire la conoscenza reciproca, e costruire sempre nuove modalità d’intervento che possano fornire risposte concrete e soddisfacenti. Tutto ciò, naturalmente, a partire da una corretta e puntuale applicazione delle leggi esistenti e delle pene comminate e comminabili. Ma non dimenticando che occorre restituire forza e consolidare l’autorevolezza degli attori della sicurezza, mobilitando mezzi, risorse, strumenti informativi, ma soprattutto rafforzando le basi culturali perché consapevolezza, conoscenza e sapere sono i motori della responsabilità, della fiducia nel futuro, della democrazia.

Giorgio Napolitano