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Alla Sig.ra Presidente della Commissione Giustizia
On.le Donatella FERRANTI – ROMA –^^^^^^In adesione a quanto suggerito dalla S.V. e ad integrazione e parziale modifica del documento depositato all’atto della richiesta di audizione con prot. n. 37/2014/S.N. del 9 maggio u.s..

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Cenni storici

Per un più chiaro e completo inquadramento della fattispecie, appare opportuno un breve resoconto delle principali fonti internazionali di riferimento.
I primi strumenti a tutela dei diritti umani, nella seconda metà del XIX secolo, menzionano già la proibizione della tortura, ma l’esigenza di intervenire sul piano normativo a livello internazionale emerge con forza subito dopo la II Guerra mondiale, soprattutto a causa delle persecuzioni naziste.
Le atrocità compiute nel periodo bellico, infatti, evidenziarono la necessità di apprestare forme di tutela di carattere sovranazionale, per garantire la protezione dei diritti umani, anche nei confronti delle minoranze, al fine di evitare che la tutela restasse affidata unicamente alle scelte spesso strumentali e discutibili delle maggioranze di governo.
Da quel momento, la Comunità internazionale e l’Organizzazione delle Nazioni Unite hanno costantemente confermato il divieto di ricorrere alla tortura come principio fondamentale, valido non solo in tempo di pace, ma anche di guerra.
La punizione della tortura nasce, quindi, inizialmente, come strumento di tutela da forme di violenza poste in essere dallo Stato contro uno o più individui.

? Alcune utili indicazioni si ritrovano già nella “Dichiarazione interamericana dei diritti e dei doveri dell’uomo” sottoscritta il 30 aprile 1948 dall’Organizzazione degli Stati Americani, e nella “Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e protezione del crimine di genocidio”, del 9 dicembre 1948.

? Ma è con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” delle Nazioni Unite, del 10 dicembre 1948, che la proibizione della tortura viene per la prima volta espressamente affermata:
“Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”.
La “Dichiarazione” è tecnicamente una risoluzione, ovvero una raccomandazione esposta sotto forma di principi, quindi non vincolante per gli Stati firmatari, ai quali comunque si ispireranno successivamente tutte le convenzioni e i trattati, nonché gli stessi ordinamenti nazionali.

? Gli atti di tortura rappresentano violazione sia della “human rights law”, sia del diritto internazionale umanitario, che regola il contesto dei conflitti armati (internazionali ed interni), nel cui ambito vanno ricordate le quattro “Convenzioni di Ginevra”, del 12 agosto 1949.
? L’art. 3 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali” (Roma, 4 novembre 1950), dedicato alla “Proibizione della tortura”, contiene una formulazione sostanzialmente analoga a quella della “Dichiarazione” delle Nazioni Unite:
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Ispirata alla “Dichiarazione universale” delle Nazioni Unite, essa trasforma i diritti dell’individuo in altrettanti obblighi vincolanti per gli Stati.
Il sistema di tutela è stato potenziato attraverso l’istituzione della “Corte europea dei diritti dell’uomo” (nota anche come Corte di Strasburgo), competente sia sui ricorsi interstatuali, sia su quelli individuali.
Il concetto di tortura è stato progressivamente enucleato attraverso una costante opera di interpretazione delle norme di riferimento da parte della Corte, che è così pervenuta all’individuazione di pene e trattamenti vietati, alla fissazione di una soglia minima di gravità ed alla definizione dei principali caratteri internazionalistici del divieto e del crimine di tortura.
Il divieto non è derogabile neppure in tempo di guerra, ex art. 15 della stessa Convenzione europea.
? Il 16 dicembre 1966 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva i due “Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali”, trattati multilaterali aperti alla firma ed alla ratifica degli Stati, avvenuta, per quanto riguarda l’Italia, con L. 25 ottobre 1977, n. 881.
L’art. 7 prevede che:
“Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico”.
Si tratta di un crimine comune (che può, quindi, essere commesso da chiunque), con una fondamentale novità costituita dalla individuazione dell’ulteriore divieto di sottoposizione ad esperimenti medici o scientifici, contro la volontà dell’interessato.
Il “Patto”, pur prevedendo un apposito organo di controllo – il “Comitato dei diritti dell’Uomo” – non consente, tuttavia, allo stesso di svolgere alcuna indagine propria, salvo rivolgere domande ai Governi firmatari.
? La “Convenzione americana dei diritti dell’Uomo”, dell’Organizzazione degli Stati Americani, 22 novembre 1969, all’art. 5 prevede che:
“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria integrità fisica, mentale e morale. 2. Nessuno sarà sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Tutti coloro privati della libertà saranno trattati con il rispetto dovuto alla dignità inerente di persona umana”.

? Con la Risoluzione n. 3452 (XXX), è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 9 dicembre 1975, la “Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti”, che costituisce la premessa per la successiva “Convenzione” delle Nazioni Unite del 1984. Si tratta del primo atto dedicato solo alla tortura, che non ha, però, carattere vincolante.

Per la prima volta in assoluto sul piano internazionale compare una definizione del concetto di tortura. L’art. 1 della “Dichiarazione” sancisce, infatti, che:
“Il termine tortura indica ogni atto per mezzo del quale un dolore o delle sofferenze acute, fisiche o mentali, vengono deliberatamente inflitte ad una persona da agenti dell’amministrazione pubblica o su loro istigazione, principalmente allo scopo di ottenere da questa persona o da un terzo delle informazioni o delle confessioni, o di punirla per un atto che essa ha commesso o che è sospettata di aver commesso, o di intimidirla o di intimidire altre persone. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a queste sanzioni o da esse cagionate, in una misura compatibile con le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti”.

Il comma 2 dello stesso art. 1 (che non sarà, poi, recepito dalla “Convenzione” ONU del 1984) aggiunge che: “La tortura costituisce una forma aggravata e deliberata di pene o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti”.
La disposizione fissa, infatti, nella particolare gravità e nella intenzionalità il confine tra maltrattamenti e tortura in senso stretto, ma la soglia di gravità fu, nel prosieguo del dibattito, ritenuta potenzialmente fuorviante ai fini della distinzione tra trattamento inumano e tortura.

In sintesi, la Dichiarazione sancisce alcuni principi fondamentali:

– nessuno Stato può autorizzare o tollerare la tortura o trattamenti disumani o degradanti, neanche in situazioni particolari come la guerra o l’instabilità politica interna o altre eccezionali esigenze;
– ogni Stato che ha ratificato la Dichiarazione O.N.U. contro la tortura si impegna ad esercitare una sorveglianza sulle pratiche ed i metodi di detenzione e sui luoghi di detenzione e sorveglianza, allo scopo di prevenire qualsiasi trattamento disumano o forma di tortura;
– chiunque ritenga di essere stato vittima di tali trattamenti ha diritto di rivolgersi alle autorità competenti dello Stato interessato, al fine di procedere immediatamente ad un’indagine volta a fare luce sulla vicenda e a fare giustizia.
? La “Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti”, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 (nota anche come “CAT”) ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, costituisce la principale fonte in materia di tortura, con vocazione universale, vincolante per gli Stati che l’hanno ratificata. Rilevante anche l’istituzione del “Comitato contro la tortura” (anch’esso noto come “CAT”: Committee Against Torture – riconosciuto dal nostro Paese), che ha il compito di verificare l’applicazione della Convenzione nei Paesi che la hanno ratificata.
La definizione di cui all’art. 1 rievoca in modo pressoché integrale quella contenuta nella “Dichiarazione” delle Nazioni Unite del 1975:
“Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate”.

Per la “CAT” sono, quindi, elementi costitutivi della tortura:

1) la condotta, di tipo sia attivo, sia omissivo (a dispetto della formulazione letterale, si ritiene, infatti che agli atti debbano essere equiparate le omissioni. Si pensi alla privazione di cure, di cibo, di acqua);
2) il dolore o le sofferenze sia fisiche, sia mentali, benché non definite dalla “Convenzione”. Il rilievo attribuito al “dolore” ed alla “sofferenza” consente di affermare che la “Convenzione” recepisce un concetto di tutela dalla sofferenza, piuttosto che una più ampia garanzia della dignità umana nella sua interezza e dell’integrità della coscienza. Restano, quindi, escluse dal divieto tutte quelle pratiche moderne che, pur evitando la percezione del dolore, annullano o limitano, però, le capacità di autodeterminazione della vittima;
3) l’intensità del dolore o delle sofferenze, usata come criterio discretivo della tortura rispetto a forme di maltrattamento meno gravi. E’ stato a tal proposito osservato che ciò potrebbe incoraggiare la diffusione di questi ultimi;
4) l’intenzionalità, in assenza della quale ricorreranno i trattamenti inumani o degradanti, che non sono compresi nella definizione di tortura;
5) il dolo specifico, con un’elencazione di ipotesi non tassative, aperta all’inclusione di ulteriori scopi, che si ritiene debbano comunque essere ricollegabili a quelli esplicitamente previsti. Non è stata inclusa l’intenzione di eseguire esperimenti scientifici senza il consenso della vittima, né tutte le ipotesi di gelosia, vendetta o altri moventi personali, benché non basati sulla discriminazione;
6) l’identità dell’autore, giacché, con una scelta assai controversa, il crimine fu concepito come proprio (agente della funzione pubblica o ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito).

Si prevede, poi, esplicitamente che le sanzioni legittime – benché implicanti per loro stessa natura un certo grado di dolore o sofferenza – non possano fondare alcuna responsabilità dello Stato, purché non siano state intenzionalmente aggravate.

La “CAT”, oltre che introdurre l’obbligo degli Stati di punire la tortura ed i trattamenti inumani o degradanti, ha previsto una serie di ulteriori obblighi:

– un divieto preventivo di tortura, impegnando gli Stati che vi hanno aderito ad assumere adeguate misure legislative, amministrative, giuridiche per prevenire qualsiasi atto di tortura o trattamento inumano o degradante;
– il diritto delle vittime di torture o trattamenti inumani o degradanti di adire l’autorità competente ed il conseguente obbligo di avviare immediata indagine, con l’apertura di un procedimento e l’eventuale punizione del responsabile, nonché il risarcimento della vittima o dei suoi familiari, per il danno subito;
– l’esercizio di un controllo da parte di ogni Stato firmatario sui metodi e sulle pratiche di interrogatorio, sulle misure di detenzione e sorveglianza.
Relativamente ai trattamenti inumani o degradanti, l’art. 16 prevede che:

“Ogni Stato parte si impegna a proibire in ogni territorio, sottoposto alla sua giurisdizione, altri atti che costituiscono pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che non siano atti di tortura come definiti all’articolo primo, allorché questi atti sono commessi da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione o con il suo consenso espresso o tacito”.

Gli elementi di fondamentale distinzione tra tortura e trattamenti inumani o degradanti vengono individuati dalla giurisprudenza del “Comitato contro la tortura” essenzialmente nel dolo specifico e nella gravità delle sofferenze. Non basta, infatti, risalire unicamente all’intenzione, giacché ai sensi dell’art. 1 della Convenzione è necessario che essa sia legata al conseguimento di un determinato scopo. Quest’ultimo, ai sensi della “CAT”, rappresenta l’elemento che identifica in modo univoco la tortura rispetto a qualsiasi altro trattamento inumano o degradante, confermando la sua natura di atto personalizzato mirato a distruggere l’identità e la dignità della vittima.

Da sottolineare anche la previsione di cui all’art. 2 della Convenzione, in tema di inderogabilità, a tenore della quale:

“Nessuna circostanza eccezionale, di qualsiasi natura, compresi lo stato di guerra o la minaccia di guerra, la instabilità politica interna o qualunque altra pubblica emergenza, potrà essere invocata per giustificare la tortura”.

Si evidenzia, inoltre, che il citato Comitato contro la tortura, nella Relazione del 18 maggio 2008, ha raccomandato all’Italia:

– l’inserimento del diritto interno del reato di tortura, in modo da soddisfare tutti gli elementi contenuti nell’art. 1 della Convenzione contro la tortura;

e, con specifico riferimento ai profili riguardanti l’operato degli appartenenti alle Forze di Polizia:

– un adeguato equipaggiamento e addestramento per tutti gli agenti, finalizzati all’impiego di mezzi non violenti;
– il ricorso alla forza e alle armi, soltanto quando è strettamente necessario e in maniera proporzionata;
– il rafforzamento delle misure normative volte a garantire, in caso di presunto uso sproporzionato e non necessario della violenza da parte degli agenti, “indagini immediate, imparziali ed efficaci in merito alle denunce di tortura e maltrattamenti commessi da agenti delle forze di polizia”.

? La “Convenzione interamericana per la prevenzione e la punizione della tortura”, siglata il 9 dicembre 1985, contiene una diversa definizione della tortura, che corregge, in parte, alcuni degli aspetti più discussi della “CAT”. Dispone l’art. 2 :

“Si intende per tortura ogni atto intenzionalmente compiuto attraverso cui sono inflitti un dolore fisico o mentale o una sofferenza su una persona per ragioni di indagini penali, come mezzo di intimidazione, come punizione personale, come misura preventiva, come punizione, o per qualsiasi altro scopo. Si intende per tortura anche l’uso di metodi su una persona volti ad annullare la personalità della vittima o a diminuire le sue capacità fisiche o mentali, benché non determinino dolore fisico o angoscia mentale.
Il concetto di tortura non comprende il dolore o la sofferenza fisica o mentale che è inerente o che è solo la conseguenza di provvedimenti legittimi, a condizione che essi non includano l’esecuzione degli atti o l’uso di metodi di cui al presente articolo”.
La disposizione appare senz’altro di particolare interesse, sia perché include nella nozione di tortura anche l’applicazione di metodi tendenti ad annullare la personalità della vittima o a diminuire le sue capacità fisiche o mentali, anche nel caso in cui non abbiano causato dolore o sofferenza, sia perché – più in generale – non richiede che il dolore o la sofferenza arrecati siano gravi.
Tale elemento consente di ritenere che con tale disposizione si sia inteso apprestare una più ampia forma di tutela, non solo rispetto alla sofferenza e al dolore causati dalla tortura, ma rispetto a qualunque pratica comunque idonea a compromettere la dignità umana nella sua interezza o l’integrità della coscienza.
Si tratta, anche in questo caso, di un reato proprio, come chiarito dal successivo art. 3 :

“a) Un dipendente pubblico o un impiegato che agendo in quella veste ordini, istighi, o induca l’uso della tortura, o che direttamente la commetta o che, essendo in grado di prevenirla, non riesca a farlo; b) Un persona che sotto l’istigazione del pubblico dipendente o dell’impiegato di cui alla lettera a) ordini, istighi o induca l’uso della tortura, direttamente la commetta, o sia complice in essa”.

? La “Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, del 1987, ha mirato alla costituzione del “Comitato europeo per la prevenzione della tortura” (noto anche come CPT), che ha essenzialmente compiti di prevenzione, attraverso un corpo di ispettori internazionali.

? In tale complessivo sistema di tutela, appare di rilievo anche l’istituzione, il 17 luglio 1998, della “Corte Penale Internazionale”, operativa dal 1° luglio 2002. Nello statuto istitutivo la tortura è individuata tra le possibili condotte che configurano il genocidio (art. 6) ed è espressamente indicata tra i crimini contro l’umanità (art. 7) e tra i crimini di guerra (art. 8).
Da rilevare che all’art. 7 non si qualifica espressamente come soggetto attivo un pubblico ufficiale, ma si fa piuttosto riferimento alla “condizione” di chi esercita “la custodia o il controllo”, con l’intento evidente di coprire un ambito più ampio (ad es., i maltrattamenti ad opera di terroristi, combattenti o appartenenti alla criminalità organizzata).
Il breve (e non esaustivo) excursus delle fonti internazionali di maggior rilievo consente di osservare che:
1. la “CAT” del 1984 configura la tortura come reato proprio e a dolo specifico. Tale scelta non sempre è stata condivisa in sede di stesura di altri strumenti internazionali (come la “Convenzione interamericana per la prevenzione e la punizione della tortura” del 1985, che richiede solo il dolo intenzionale o la stessa “Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti” del 1975, ove è utilizzata l’espressione “principalmente allo scopo di…”);
2. il dolore o le sofferenze arrecati devono essere di particolare intensità (“acute”, “forti”);
3. la tortura non si estende al dolore ed alle sofferenze derivanti da sanzioni legittime;
4. la tortura ed i trattamenti inumani o degradanti restano concettualmente distinti;
5. parzialmente diversa la formulazione recepita dalla “Convenzione interamericana per la prevenzione e la punizione della tortura”, per la quale la tortura resta reato proprio, ma, come si è visto, a dolo essenzialmente generico (“… per ragioni di indagini penali, come mezzo di intimidazione, come punizione personale, come misura preventiva, come punizione, o per qualsiasi altro scopo”), senza che sia richiesto il requisito della “gravità” del dolore o della sofferenza.

L’introduzione del reato di tortura in Italia

Oltre che ad esigenze di adeguamento agli obblighi previsti dalla “CAT” del 1984, ratificata dall’Italia con l. 3/11/1988, n. 498, l’introduzione di un autonomo reato di tortura sembra ispirarsi anche all’esigenza di attribuire alla tortura, nel nostro ordinamento giuridico, una rilevanza specifica che rischierebbe di perdersi nella perseguibilità, solo episodica e circoscritta, di una serie di autonome condotte, ricavabili da previsioni incriminatrici già esistenti (ad es.: artt. 606 “Arresto illegale”, 607 – “Indebita limitazione di libertà personale”, 608 – “Abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, 609 – “Perquisizione e ispezioni personali arbitrarie”, 610 – “Violenza privata”, 613 – “Stato di incapacità procurato mediante violenza” o, ancora, 581 – “Percosse” e 582 – “Lesioni personali”).
Molti sono stati i disegni di legge che si sono susseguiti nelle precedenti legislature, senza, tuttavia, mai giungere a compimento e diverse sono state le impostazioni nel tempo prescelte, anche con riguardo ai temi fondamentali del soggetto attivo (reato comune o reato proprio) e dell’elemento psicologico (dolo specifico o dolo generico).
Si tratta, chiaramente, di una ben precisa opzione di politica legislativa, attraverso la quale è possibile decidere se circoscrivere la tortura alle sole condotte poste in essere da dipendenti pubblici (e quindi, per loro tramite, essenzialmente dallo Stato), al fine di delimitare l’ambito entro cui può ritenersi legittimo l’uso della forza pubblica, valorizzando essenzialmente il rapporto “autorità – privato” o se, viceversa, sanzionare anche condotte di tipo analogo nell’ambito di rapporti interprivati (si pensi al dolore o alle sofferenze inflitti alla vittima di un sequestro di persona o ai gravissimi episodi verificatisi all’interno di strutture preposte all’assistenza degli anziani o dei disabili, alla cura dei bambini, a certi tipi di violenze maturate in ambito familiare).
Va osservato, inoltre, che la configurazione di un reato proprio, benché sufficiente all’adeguamento dell’Italia agli obblighi assunti in sede di ratifica della “CAT”, tuttavia non lo sarebbe in relazione all’adesione ad altri testi internazionali che l’Italia ha recepito, come la “Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale” (del 1965) e la “Dichiarazione sull’eliminazione della violenza nei confronti della donna” (del 1993).
La stessa giurisprudenza internazionale ha interpretato le previsioni di cui all’art. 3 della “CEDU” come afferenti ad un più ampio obbligo degli Stati di prevenzione e punizione della tortura, anche nei rapporti tra privati.
Non sembra, del resto, potersi ritenere che, in relazione all’intensità delle sofferenze o del dolore patito dalla vittima di tortura, possa assumere carattere dirimente la qualità personale del soggetto attivo del reato (recente, ad es., è il caso di una giovane studentessa universitaria segregata in casa e violentata per un anno dal fidanzato, arrestato dalla Squadra Mobile di Cagliari il 18/10/2013).
A tal proposito, però, nel sottolineare che per le ragioni esposte appare preferibile la configurazione di un reato comune, particolare dovrà essere l’attenzione in sede di formulazione del testo, specie al fine di evitare la possibile inclusione di ipotesi estranee alla comune nozione di tortura.

La scelta del dolo generico appare in questo caso del tutto coerente rispetto all’individuazione di un reato comune, giacché – per contro – il dolo specifico (ad es., il fine di ottenere informazioni o confessioni, di punire la vittima per qualcosa che abbia fatto o sia sospettata di aver fatto) si sarebbe prestato ad una più accentuata specificazione della sproporzione del rapporto tra autorità pubblica e privato. Del resto, ciò consente di rendere applicabile il reato di tortura anche a fronte di acute sofferenze cagionate, ad es., per gelosia, per sadismo o per vendetta, che ne resterebbero altrimenti ingiustamente escluse.

Una più attenta riflessione potrebbe, poi, meritare l’inquadramento sistematico della nuova disposizione (art. 613 bis), che si pensa di inserire all’interno del “Libro II” (“Dei delitti in particolare”), Titolo XII (“Dei delitti contro la persona”), “Capo III” (“Dei delitti contro la libertà individuale”), “Sezione III” (“Dei delitti contro la libertà morale”), dopo l’art. 613 (“Stato di incapacità procurato mediante violenza”).
A tal proposito va, però osservato, che mentre il dolo specifico avrebbe in effetti consigliato l’introduzione della nuova fattispecie all’interno del “Titolo XII”, dedicato, appunto, ai delitti contro la libertà morale, non altrettanto sembra potersi dire a fronte della previsione del dolo generico. Ed infatti, benché la tortura si presenti come essenzialmente plurioffensiva, è assai probabile che – attesa anche la valorizzazione, nel nuovo disposto normativo, della gravità del dolore o delle sofferenze arrecate e la scelta del dolo generico – il bene maggiormente compromesso possa essere, invece, l’incolumità individuale, piuttosto che la libertà morale.

In conclusione, al fine di distinguere la tortura da altre ipotesi meno gravi e di meglio specificare l’ambito di operatività della disposizione in fase di introduzione, fermi restando il dolo generico e la configurazione del reato come comune, si propone di:

1) introdurre, al primo comma, la “clausola di esclusione” (“Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti del presente Titolo (…)” )
2) valorizzare la gravità delle sofferenze, fisiche o psichiche subite dalla persona offesa, precisando, però, al fine di addivenire ad una maggiore tipizzazione della fattispecie, sulla base di quali possibili elementi tale gravità dovrà essere valutata e puntualmente accertata dall’interprete (avuto riguardo, ad es., all’età, al sesso, alle condizioni di salute, all’integrità psichica della vittima, alla durata del trattamento et sim.);
3) parificare alle azioni le omissioni, in relazione alla causazione delle sofferenze o del dolore gravi;
4) prevedere – per la configurazione del reato – la pluralità di condotte, attive od omissive, in considerazione delle stesse caratteristiche intrinseche della tortura. La necessaria reiterazione delle violenze o delle minacce si rivela funzionale alla tipizzazione della condotta richiesta per l’integrazione del reato, che mira proprio alla punizione di condotte “strutturate” che – anche attraverso la protrazione nel tempo – sono suscettibili di arrecare un dolore o una sofferenza di particolare gravità e non di carattere meramente istantaneo;
5) introdurre il dolo intenzionale (“Chiunque, (…), intenzionalmente cagiona (…)”);
6) prevedere espressamente l’esclusione delle sofferenze derivanti da sanzioni legittime dell’Autorità (“Il reato non sussiste quando le sofferenze fisiche o psichiche derivano unicamente da sanzioni legittime, sono ad esse inerenti o da esse provocate”);
7) mantenere l’aggravante specifica per il caso in cui il reato sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio;
8) mantenere le ulteriori aggravanti specifiche per il caso di lesioni e morte della vittima.

Occorre, inoltre, osservare che nell’attuale formulazione i trattamenti inumani o degradanti – al pari delle violenze o delle minacce gravi – sono contemplati come una delle possibili forme di realizzazione della condotta (vincolata), delineata dal legislatore. Andrebbe probabilmente valutata l’opportunità di riflettere sull’introduzione di un’autonoma ipotesi di reato a dolo generico, con cui siano perseguiti – e puniti meno gravemente – i trattamenti e le pene inumani o degradanti, che mantengono, del resto, una propria autonoma rilevanza concettuale nelle principali fonti internazionali sin qui esaminate.
Ed infatti, da un lato, è importante colmare le zone d’ombra, che potrebbero finire per collocarsi tra il reato di tortura (per il quale sono richieste, come si è visto, la reiterazione delle condotte e la gravità delle sofferenze o del dolore) e condotte diverse che, pur se meritevoli di sanzione, siano, però, prive dei requisiti necessari alla configurabilità della fattispecie in commento e non appaiano riconducibili – allo stato – a diverse fattispecie incriminatrici. Dall’altro, però, specie in considerazione di un livello di strutturale indeterminatezza del reato di tortura (che sarà, verosimilmente, possibile limitare con una più attenta stesura della disposizione, ma non eliminare del tutto), è necessario prevenire ogni possibile forzatura di carattere interpretativo, volta ad ampliare indebitamente l’ambito applicativo dell’articolo che si mira ad introdurre, che finirebbe per ripercuotersi negativamente sulla serenità degli operatori e sull’efficienza dei servizi di polizia.

Infine, specie alla luce del nuovo contesto normativo, si auspica con forza che l’Italia sappia adeguarsi pienamente agli obblighi assunti in sede internazionale ed alle specifiche raccomandazioni ricevute, con particolare riguardo a quanto rilevato – come si è avuto occasione di ricordare – dallo stesso Comitato contro la tortura, nella Relazione del 18 maggio 2008.
Si rendono, dunque, necessari interventi concreti volti ad incidere positivamente sull’equipaggiamento e sulla formazione del personale, oltre che, sotto il profilo strutturale (anche alla luce delle esperienze maturate da altri Paesi), ad assicurare che la custodia e l’eventuale assunzione di informazioni di soggetti momentaneamente privati della libertà personale, possano tenersi all’interno di locali adeguati ed idonei a garantire un sicuro svolgimento delle attività operative, anche con l’eventuale ausilio di sistemi di registrazione, visiva e sonora.
Ciò potrebbe senz’altro contribuire ad apprestare un’idonea tutela – anche in chiave preventiva – sia agli operatori delle forze dell’ordine, sia ai soggetti coinvolti a vario titolo da attività di polizia.

Nell’auspicare l’accoglimento di quanto sin qui proposto in relazione alla nuova fattispecie incriminatrice, non può essere, infatti, dimenticato che il personale delle forze di polizia si trova spesso costretto a fronteggiare diverse forme di violenza che richiedono una reazione adeguata alla entità dell’aggressione ed evidentemente contenuta nei limiti entro i quali l’ordinamento giuridico ne riconosce la legittimità. L’obiettivo, comune e condiviso, resta quello di migliorare nella maggior misura possibile la qualità e l’efficacia degli interventi operativi .

 Il Segretario Nazionale
 Lorena LA SPINA

DOCUMENTO AUDIZIONE COMMISSIONE GIUSTIZIA