A cura del V.q.a. Dr. Filippo STRAGAPEDE

INTRODUZIONE

Il concetto di fondo di tutti gli atti in senso lato persecutori è quello della molestia alla persona fisica, intesa come condotta invasiva dell’altrui tranquillità, inaccettabile nell’ordinato vivere civile, cui conseguono livelli diversi di reazione apprestata dall’ordinamento giuridico, a seconda del diverso grado di incidenza di siffatta condotta nella sfera privata altrui.
Per lungo tempo la molestia ed il disturbo sono stati considerati eventi minori nel quadro dei rapporti di contenuto negativo tra consociati.
I numerosi fatti di cronaca hanno progressivamente condotto ad attribuire importanza a fenomeni che nella legislazione erano si previsti, ma, appunto, quali fattispecie di importanza secondaria sotto il profilo della tutela da predisporre per i soggetti passivi.
Prima di passare all’approfondimento del nuovo reato di “stalking”, sembra utile procedere ad una panoramica di tutti quei comportamenti che possono essere considerati a diverso titolo persecutori.

GLI ATTI DI EMULAZIONE. L’ART. 833 DEL CODICE CIVILE.
833. Atti d’emulazione.

Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri.

La prima forma di atti persecutori presente nel nostro ordinamento giuridico è rinvenibile nel diritto civile ed è quella prevista dall’art. 833 che riguarda i cd. “atti d’emulazione”; essi altro non sono se non quegli atti, direttamente ricollegabili all’esercizio del diritto di proprietà, che non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri.
Il proprietario pone cioè in essere dei piccoli abusi del suo diritto dominicale, eccedendo nell’esercizio di questo per finalità soggettive maliziose.
Tali atti sono quindi caratterizzati dall’assenza di una reale utilità per il proprietario e dall’esclusiva finalità emulatrice degli stessi; sono atti che non hanno alcuna giustificazione utilitaristica dal punto di vista economico e sociale perché altrimenti non potrebbero essere considerati illegittimi.
L’art. 833 c.c. stabilisce quindi un limite ad un potere altrimenti utilizzato senza condizioni e subito potenzialmente giustificato ove soccorra una qualche utilità, oggettiva, per il proprietario del bene.

IL MOBBING

La nozione di mobbing ci giunge da Paesi più avanzati del nostro per ciò che attiene allo sviluppo industriale e agli effetti, non sempre positivi, dei profondi mutamenti di costume cagionati dalla derivante trasformazione del tessuto sociale, con la conseguenza, in alcuni casi, del degradarsi dei rapporti intersoggettivi e la presa d’atto dell’esistenza di comportamenti che offendono l’individuo che, senza di per sé violare le leggi esistenti, richiedono ugualmente mezzi di repressione o di indennizzo a difesa della vittima.
Il mobbing assume questa denominazione da espressioni anglosassoni che indicano l’azione di una folla, antagonista nei confronti di un singolo individuo. Il verbo “to mob” significa accerchiare, affollarsi attorno a qualcuno ed esprime il senso del circondare, dell’assediare una persona che ne risulta vessata e posta in condizioni di inferiorità. Il sostantivo “mob”, a sua volta, indica la folla, con un connotato negativo di agglomerato ostile, pericoloso e sostanzialmente illecito.
Per traslazione il mobbing è venuto ad indicare l’aggressione che più persone pongono in atto ricorrendo non già a violenze fisiche ma a strategie insidiose, rivolte a mettere in difficoltà colui che è preso di mira e, in linea di principio, a distruggerlo psichicamente, ad emarginarlo, ad eliminarlo dal contesto.
Per ulteriore traslazione la medesima denominazione è venuta ad indicare l’uguale comportamento posto in essere da un solo aggressore, quando questi si trova in una posizione, rispetto all’offeso, di supremazia tale da impedire a quest’ultimo valide forme di reazione (è il caso del mobbing del datore di lavoro nei confronti del dipendente).
La situazione che dà luogo al mobbing non è nuova ma è affiorata nella consapevolezza degli studiosi dei rapporti umani e del legislatore solo a seguito della rivalutazione della persona individuo, che ha costituito fenomeno tipico del dopoguerra nei Paesi di tradizione occidentale.
Manca, nonostante varie elaborazioni, una nozione unitaria e precisa, per un fenomeno che si cerca di afferrare nel contenuto descrivendone gli aspetti caratteristici ma senza mai giungere ad un concetto omnicomprensivo.
Il mobbing è una situazione posta in evidenza dalla realtà sociale, alla quale dottrina e giurisprudenza hanno cercato di dare una sistemazione concettuale, in mancanza di una precisa presa di posizione ad opera del legislatore ricorrendo anche a varie classificazioni quali quelle di mobbing collettivo, verticale e simili.
Tale termine, infatti, si sente spesso nelle nostre aule di giustizia, deducendo il comportamento che lo configura quale fatto illecito fonte di danni di cui chiedere il risarcimento, ma che manca, come già evidenziato, di un riconoscimento nel diritto positivo.
Il Tribunale di Torino con sentenza del 2002 ha chiarito la posizione della Costituzione repubblicana rispetto all’attività produttiva; quest’ultima, pur essendo essa stessa oggetto di tutela costituzionale, poichè attiene all’iniziativa economica privata, è subordinata, ai sensi del secondo comma dell’art. 41, all’utilità sociale, che va intesa non tanto e non soltanto come mero benessere economico e materiale quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, libertà e dignità.
Gli elementi costitutivi del mobbing sono stati indicati dal Tribunale di Milano con sentenza del 22 agosto 2002 e precisamente: l’aggressione o persecuzione di carattere psicologico; la sua frequenza, sistematicità e durata nel tempo; il suo andamento progressivo; le conseguenze patologiche gravi che ne derivano per il lavoratore mobbizzato.
Pertanto una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio giustificatrice nell’intento di isolare, di emarginare e fors’anche di espellere la vittima dall’ambiente di lavoro.
Sussiste, quindi, la condotta “mobbizzante” se ricorrono un elemento oggettivo (la situazione della vittima che subisce l’azione vessatoria) ed un elemento soggettivo, proprio del “mobber”, il quale approfittando della sua posizione di superiorità, attacca la vittima al fine di emarginarla.
Che il mobbing esista come realtà patologica sociale, l’ordinamento ha cominciato a riconoscerlo in modo molto indiretto con il decreto ministeriale 27 aprile 2004 che ha indicato il mobbing fra le malattie da costrittività organizzativa.
In realtà, però, quanto costituisce nozione di mobbing appartiene alla cultura giuridica del nostro sistema lavoristico già dal 1942 e trova conferma, come già segnalato, nell’art. 41 Cost., laddove esso stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Il mobbing può essere:
– verticale, detto anche “bossing”, se è attuato da un superiore gerarchico in danno di un subordinato oppure viceversa: infatti è conosciuto anche il mobbing dei dipendenti nei confronti di un superiore;
– orizzontale, se è esercitato tra soggetti aventi pari grado e condizione;
– collettivo, quando è perpetrato da un gruppo di persone, molto spesso e tipicamente quale forma di strategia rivolta ad eliminare dall’ambiente un soggetto o ad emarginarlo;
– esterno, se riguarda il datore di lavoro, pressato da minacce o da comportamenti di pressione ad opera di sindacati o di individui con ambizioni carrieristiche.
A seconda del luogo o dei limiti di ambiente nel quale si verifica il mobbing si connota come di tipo lavorativo, oppure familiare, scolastico e simili.
Tra le più frequenti manifestazioni del mobbing vi sono:
– gli attacchi ai contatti umani, realizzati con limitazioni imposte alla possibilità di comunicare, con continue interruzioni del discorso, con rimproveri e critiche frequenti, con sguardi e gesti di significato negativo e di disapprovazione o compatimento;
– l’isolamento sistematico, soprattutto nel mondo del lavoro, costituito dal trasferimento in un luogo di lavoro isolato e da atteggiamenti rivolti ad ignorare la vittima, da divieti di parlare e di avere con essa rapporti;
– i mutamenti delle mansioni, con la totale privazione di compiti lavorativi, con l’assegnazione a lavori inutili, nocivi, al di sotto delle capacità professionali della vittima;
-gli attacchi alla reputazione, effettuati con i pettegolezzi, le maldicenze, le ridicolizzazioni, le calunnie, le umiliazioni;
– i veri e propri atti di violenza o di minaccia, in questo secondo caso, spesso larvata e lasciata soltanto capire.

Il mobbing nell’ambiente di lavoro

Come già detto il mobbing è sorto storicamente nel mondo del lavoro. La stretta vicinanza di individui, la competizione, i difetti del carattere, le ambizioni, le rivalità, la necessità di conservazione del posto di lavoro hanno spesso reso conflittuali i rapporti di lavoro. E proprio in questo contesto, quindi, che si è studiato il fenomeno del mobbing. Le prime osservazioni giunte all’attenzione dei sociologi e dei giuristi hanno riguardato i comportamenti datoriali di mortificazione del singolo dipendente, quasi sempre diretti ad ottenere l’estromissione pseudo- volontaria dall’impresa. Ragioni di ristrutturazione larvata dell’azienda, di ridimensionamento, di adesione della persona presa di mira a fazioni politiche sgradite o di semplice antipatia verso di essa hanno motivato comportamenti di demansionamento e di esclusione che sono divenuti casi tipici della letteratura di settore.
Si è affermato che il mobbing consiste in una serie di atti datoriali sforniti di qualsiasi utilità diretta per l’organizzazione e quindi presuntivamente diretti alla gratuita lesione dell’integrità psico-fisica del prestatore.
Il mobbing è un fatto illecito consistente nella sottoposizione del lavoratore ad azioni che, se pur singolarmente considerate non presentano carattere illecito, unitariamente considerate, invece, risultano moleste e attuate con finalità persecutorie tali da rendere penosa per il lavoratore la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Accanto quindi ad un elemento oggettivo caratterizzato da tutti i soprusi e le pratiche dirette a danneggiare il lavoratore è necessario un elemento soggettivo consistente nel dolo specifico di nuocere psicologicamente al lavoratore al fine di emarginarlo dal contesto lavorativo e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione attraverso il licenziamento od inducendolo a rassegnare le dimissioni.
L’effetto di tali pratiche di sopruso è di provocare nel soggetto mobbizzato uno stato di disagio psicologico e l’insorgere di malattie psicosomatiche, classificate come disturbi di adattamento e, nei casi gravi, di disturbi post-traumatici da stress.
Gli atteggiamenti tipici del mobbing individuati dalla psicologia del lavoro considerati come idonei a colpire il lavoratore menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sè stesso, a parte le situazioni paradigmatiche e scolastiche della reiterazione di richiami verbali privi di reale motivazione e delle sanzioni disciplinari pretestuose ed abnormi sono costituiti anche da: sottrazioni di benefit o vantaggi precedentemente attribuiti, demansionamento, trasferimento immotivato, relegamento del lavoratore in luoghi isolati, e così via, che devono presentarsi con carattere di ripetitività e continuità nel tempo.

Basi giuridiche

L’esigenza di reperire strumenti di tutela del lavoratore sottoposto a pratiche discriminatorie ha condotto a ricercare norme di diritto positivo da utilizzare quali punti di riferimento per ottenere un indennizzo, se non anche un intervento di vera e propria repressione o di ripristino.
Indirettamente hanno fornito protezione lo Statuto dei lavoratori, che ha vietato condotte vessatorie ed offensive per la dignità e la parità dei lavoratori, nonché le normative che in prosieguo di tempo hanno dettato norme per prevenire e reprimere le discriminazioni per ragioni di sesso, razza, credo religioso, appartenenza politica e disabilità.
Ma il riferimento al quale con maggiore frequenza si è fatto capo è costituito dall’art. 2087 c.c., il quale impone all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Questa norma, in origine formulata per prevenire gli infortuni sul lavoro e tutelare i lavoratori contro forme di asservimento divenute inaccettabili anche per quell’epoca, è stata interpretata, soprattutto dalla giurisprudenza, in modo evolutivo e, di conseguenza, è divenuta un approdo al quale sono state ancorate pronunce di vera e propria rottura con la tradizione.
Si è ripetutamente affermato che l’art. 2087 c.c. accolla all’imprenditore un obbligo di sicurezza sul lavoro che è esteso alla difesa anche dell’equilibrio psico-fisico dei subordinati e che vieta al datore condotte suscettibili di influire sulla loro sfera di dignità e di libertà morale.
Da ultimo Cassazione 2006 ha dichiarato sussistente per il datore di lavoro anche l’obbligo di sincerarsi che i suoi dipendenti non attuino forme di discriminazione o di emarginazione a danno di taluno tra essi e Cassazione 2007 ha stabilito che, in tema di mobbing orizzontale, il datore di lavoro risponde dei danni subiti dal dipendente, vessato dai colleghi, se non ha vigilato e non ha fatto nulla per far cessare i soprusi.
Un’altra disposizione che è stata invocata per fondarvi una pretesa risarcitoria di danno da mobbing è l’art. 2103 c.c. nella parte che impone all’imprenditore di adibire il prestatore di lavoro alle mansioni per le quali è stato assunto od a quelle superiori che abbia successivamente acquisito; di versare al prestatore la retribuzione corrispondente alle mansioni svolte; di non effettuare il demansionamento o il trasferimento che non sia dovuto ad esigenze organizzative del lavoro o dell’azienda, riconoscendo in tali casi la possibilità di risarcibilità del danno esistenziale.
Si è avvertito che il demansionamento viola non soltanto il detto art. 2103 c.c. ma si traduce in una lesione del diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione, garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, della sua personalità anche nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento (Cass. 2004).
Non è comunque sufficiente a configurare il mobbing una illegittima dequalificazione professionale (che costituisce fatto illecito di per sé), occorrendo a tal fine una pluralità di comportamenti ostili che, nell’insieme, siano volontariamente diretti a mortificare ed isolare il dipendente dall’ambiente.
Il demansionamento, come fatto illecito che viola in primis il contratto di lavoro, è diverso cioè dal comportamento mobbizzante attuato con un demansionamento inserito in un contesto di condotte seriali e finalizzate a privare il lavoratore dei suoi compiti professionali tipici ed emarginarlo.
La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo, si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali potendo quest’ultima benissimo essere realizzata anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità in sè, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione.
Il mobbing è stato ravvisato anche con riferimento all’ambiente di lavoro del pubblico impiego: il fatto che il datore di lavoro sia un ente pubblico o lo Stato non sembra che faccia differenza alcuna posto che poi, in concreto, è il contatto quotidiano con i superiori e con i colleghi a porre le condizioni per attriti e comportamenti malevoli.
Tar Campania 2006, in una decisione in materia di pubblico impiego ha stabilito: “Il mobbing consiste in una situazione illecita di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all’interno del rapporto di lavoro, in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e la professionalità della vittima, sicchè quest’ultima può pretendere il risarcimento, da parte dell’autore delle condotte illecite, del danno biologico, morale ed esistenziale; in altri termini deve trattarsi di diffusa ostilità proveniente dall’ambiente di lavoro, che si realizza in una pluralità di condotte, frutto di una vera e propria strategia persecutoria, piuttosto che in un singolo comportamento, sia pure reiterato”.

2087. Tutela delle condizioni di lavoro.
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

2103. Mansioni del lavoratore.
Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto [disp. att. c.c. 96] o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo.

Il mobbing nei rapporti familiari

Come si è già sottolineato il mobbing nasce in ambiente lavorativo. Fattispecie di mobbing sono però state riconosciute anche nell’ambito dei rapporti familiari, che costituiscono in certi casi una situazione analoga, per molti aspetti di difficoltà di coesistenza, a quello dei rapporti di colleganza e di lavoro.
Gli accenni al mobbing in questo settore hanno però avuto un significato diverso, di carattere secondario ed essenzialmente esemplificativo, nel senso che comunque esistevano situazioni che avrebbero di per sè giustificato determinate conseguenze di tipo civilistico.
Ad esempio si è affermato che costituisce mobbing e come tale causa di addebito della separazione, il comportamento del marito che assume in pubblico atteggiamenti riconducibili a tale nozione nei confronti della moglie, ingiuriandola, denigrandola, offendendola sul piano estetico e svalutandola come moglie e come madre.
Nella specie (Corte d’appello Torino 2000), quel comportamento offensivo era accompagnato da insistenti pressioni con cui il coniuge aveva reiteratamente invitato l’altro ad andarsene di casa.
In tale vicenda, come in altre, non sembra che fosse necessario ricorrere al concetto di mobbing, dato che la condotta addebitata al marito integrava di per sé stessa la violazione ripetuta dei doveri di rispetto reciproco, di fedeltà e di correttezza che una volta integravano la romanistica “affectio coniugalis”.
Probabilmente il desiderio di stare al passo con i tempi e con le nuove nozioni ha fatto adoperare strumenti superflui per descrivere situazioni che, se non etichettate, avrebbero richiesto una motivazione più diffusa.
Ed oggi comportamenti quali quelli oggetto della decisione citata dovrebbero confrontarsi con la nuova figura di reato di atti persecutori.

Il mobbing e il reato di atti persecutori

Il mobbing è una nozione civilistica che presenta alcune somiglianze con il reato di atti persecutori, presupponendo entrambi come elementi costitutivi la reiterazione di atti aventi determinate caratteristiche di induzione di sofferenza nel soggetto passivo.
E’ la ripetitività, la pluralità, la costanza dei comportamenti, la consapevolezza del loro numero e la previsione nel soggetto passivo che essi si ripeteranno e diventeranno più invasivi a costituire l’aspetto essenziale delle due fattispecie di illecito. In entrambe si deve attuare una sorta di progressione, che nella figura tipica si svolge tendenzialmente in senso peggiorativo e diventa sempre più insopportabile sino a che non si verifica l’evento, costituito dalle ripercussioni negative sulla persona della vittima che attengono alla sfera della riservatezza, della dignità e della libertà morale del destinatario, suscettibili di riverberarsi sulla stessa integrità fisica, quale somatizzazione di sofferenze morali e psichiche.
Mentre il mobbing si caratterizza per forme sfumate di vessazione, il reato di atti persecutori richiede come elemento costitutivo comportamenti che, di per sé, costituirebbero reati autonomi occorrendo infatti per la configurazione del reato molestie e/o minacce. Pertanto rispetto ad una mera condotta di mobbing l’incriminazione si basa innanzitutto sull’aver posto in essere azioni già di per sé punibili penalmente.
Mobbing e stalking sono accomunati inoltre dai pregiudizi causati sulla vittima di tipo morale (mortificazione, sensazioni di abbandono, emarginazione), psichico (depressione, mutamento del carattere) e psicosomatico concretanti patologie conclamate e riconoscibili.
Pertanto, la linea differenziale tra la figura civilistica e quella rilevante come delitto viene a risiedere nelle modalità materiali con le quali è posta in essere la condotta abusante: se il comportamento vessatorio rivela la perpetrazione di fatti di per sé rilevanti penalmente, quali le minacce e le molestie, l’autore viene a trovarsi esposto all’esercizio dell’azione penale.
Ciò premesso, il fatto che in alcune sentenze penali si sia parlato di mobbing, sta perciò soltanto a significare che si è voluta dare una etichetta a comportamenti di per sé penalmente rilevanti ai fini ad esempio del delitto di maltrattamenti in famiglia o di violenza privata. Come già sottolineato per il mobbing nei rapporti familiari, la menzione di esso nel contesto delle pronunce penali ha soltanto il valore di ricorso a concetti conosciuti per far intendere la realtà degli episodi che costituivano la materia del decidere ed a completamento della motivazione dei provvedimenti.

LE MOLESTIE NEL DIRITTO PENALE

Si può passare, ora, ad esaminare tutti quei comportamenti sanzionati da norme penali, che possono considerarsi in senso lato persecutori per poi procedere al necessario approfondimento del nuovo reato di “stalking”.

Disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone (art. 659 c.p.)
659. Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone.
Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309.
Si applica l’ammenda da euro 103 a euro 516 a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’autorità.

Il reato, di natura contravvenzionale, è disciplinato nella sezione del libro terzo del codice penale dedicata alle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica.
Costituisce una fattispecie che potrebbe avere largo ambito di applicazione nell’odierna vita sociale, ma l’esiguità della pena e la possibilità che questa sia irrogata a mezzo di un semplice decreto di condanna, unitamente al breve termine prescrizionale, la pongono in pratica ai margini dell’effettività dissuasiva e repressiva dell’azione punitiva dello Stato.
Di regola il reato in questione si realizza anche con una sola azione e si profila pertanto, come reato di tipo istantaneo. Non è tuttavia escluso che venga perpetrato tramite una serie di condotte moleste, e se ne trae la conclusione per cui l’illecito suddetto è un reato eventualmente permanente.
Tanto la natura psicologica dell’atteggiamento richiesto per la configurazione dell’illecito quanto la sua essenza di interferenza nell’altrui ambito di libertà e di tranquillità sembrano poco compatibili con comportamenti esclusivamente omissivi.
La giurisprudenza ha evidenziato che il reato in argomento ha natura di reato di pericolo presunto per la cui sussistenza cioè non è necessaria la prova dell’effettivo disturbo arrecato a più persone, essendo per contro sufficiente l’idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di persone (ancorché non tutte siano state disturbate). Tale idoneità è considerata elemento essenziale del reato.
L’interesse specificamente tutelato dal legislatore è quello della pubblica tranquillità sotto l’aspetto della pubblica quiete, la quale implica, di per sé, l’assenza di cause di disturbo per la generalità dei consociati.
Ne consegue, quindi, che, ad esempio, la contravvenzione in esame non sussiste allorquando i rumori arrechino disturbo ai soli occupanti di un appartamento: in tale ipotesi non si produce il disturbo, effettivo o potenziale, della tranquillità di un numero indeterminato di soggetti, ma soltanto di quella di persone definite, sicchè un fatto del genere può costituire, se del caso, illecito civile, come tale fonte di risarcimento del danno.
La contravvenzione di cui all’art. 659 non richiede come elemento costitutivo, un movente specifico, rappresentato dall’intenzione di disturbare e di molestare, essendo sufficiente la coscienza e volontà della condotta, nel senso della consapevolezza che l’azione compiuta è direttamente idonea a turbare la pubblica quiete, anche se la ragione dell’azione può non essere quella di raggiungere questo effetto.
In ogni caso ai fini della configurabilità del reato è necessario che le emissioni sonore rumorose siano tali da superare i limiti della normale tollerabilità, anche in relazione alla loro intensità, in modo da recare, come già segnalato, pregiudizio alla tranquillità pubblica, ovvero alla quiete ed al riposo di un numero indeterminato di persone.
Va precisato che la contravvenzione non è stata depenalizzata dall’entrata in vigore della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (legge quadro sull’inquinamento acustico), dovendosi escludere che essa sia stata assorbita, in forza del principio di specialità, dalla disposizione di cui all’art. 10, comma secondo di detta legge. La ragione di questa affermazione è stata ravvisata nel fatto che le due norme perseguono scopi diversi, mirando la prima a sanzionare gli effetti negativi della rumorosità in funzione della tranquillità pubblica mentre l’altra, essendo diretta unicamente a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali deve ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, prende in considerazione, per sanzionarlo in via amministrativa, solo il superamento di una certa soglia di rumorosità, indipendentemente dall’accertamento che sia stato arrecato o meno un effettivo disturbo alle persone. Le due disposizioni, perciò, tutelano due beni giuridici diversi, costituiti rispettivamente dalla quiete pubblica e dall’inquinamento acustico.
Per quanto attiene alle disposizioni del secondo comma dell’art. 659, va detto che nel concetto di mestiere rumoroso, per la giurisprudenza, rientra soltanto l’attività professionale o imprenditoriale in senso stretto, non anche qualsiasi esplicazione di attività ludiche o fondate sulla cooperazione o sul volontariato.
La minore sanzione penale per il disturbo causato dall’esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi, rispetto a quello causato nello svolgimento di altre attività umane, trova giustificazione nella ritenuta minore gravità del comportamento di chi deve produrre rumori per poter svolgere la sua normale attività lavorativa.
Nell’ipotesi prevista dal secondo comma in questione, l’evento perturbante è presunto “juris et de jure” sulla base del solo esercizio irregolare della professione o del mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni dell’autorità, per cui non è richiesta, come nella diversa ipotesi del primo comma, la prova dell’idoneità del rumore a turbare la quiete pubblica.
L’elemento che differenzia, quindi, le due autonome fattispecie configurate rispettivamente dal primo e dal secondo comma dell’art. 659 codice penale è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacchè ove esso provenga dall’esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell’autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità; qualora invece le vibrazioni sonore non siano causate dall’esercizio dell’attività lavorativa, ricorre l’ipotesi di cui al primo comma per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni od il riposo.
Un tipico esempio è quello dello svolgimento dell’attività rumorosa al di fuori degli orari consentiti.
La giurisprudenza ha chiarito che, l’ipotesi del mestiere di per sè stesso rumoroso, va tenuta distinta da quella dell’uso smodato, nel corso di qualsiasi attività, di mezzi rumorosi, giacchè in quest’ultimo caso trova applicazione non il secondo bensì il primo comma dell’art. 659. Pertanto rientra nell’ipotesi del primo comma l’uso smodato dei mezzi tipici di esercizio della professione o del mestiere rumoroso.
Da ciò si ricava che le due ipotesi dell’art. 659 costituiscono distinti titoli di reato, con conseguente inammissibilità del concorso formale tra le norme.

Molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.)
660. Molestia o disturbo alle persone.

Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516 [c.p. 659].
Con tale disposizione il legislatore ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l’incidenza che il suo turbamento ha sull’ordine pubblico, data l’astratta possibilità di reazione del soggetto disturbato.
Nella contravvenzione in discorso assume preminente considerazione, infatti, l’ordine pubblico, pur trattandosi di un fatto che nel concreto reca offesa alla quiete privata, per cui l’interesse privato, individuale, riceve una protezione soltanto riflessa. Da ciò ne deriva che la tutela penale viene accordata anche e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate (procedibilità d’ufficio).
Il reato trova la sua ratio, quindi, nell’esigenza di impedire che a fronte delle azioni disturbatrici altrui il cittadino non abbia altra risorsa se non quella di farsi giustizia da sé, ponendo in essere forme di reazione che recano perturbamento all’ordine pubblico.
La protezione offerta al cittadino dalla norma punitiva penale costituisce il tramite per raggiungere uno scopo che trascende gli interessi di costui.
La giurisprudenza ha peraltro avvertito che il reato ha natura plurioffensiva nel senso che, se pure l’incriminazione è prevista a tutela di un interesse pubblico generale, l’azione del colpevole cade, per definizione, su una persona fisica, la quale va considerata persona offesa dal reato.
La disposizione contenuta nell’art. 660 è quella che maggiormente ha consentito di reprimere condotte abusanti, ripetute, vicine a quelle oggi rientranti nella nozione di atti persecutori.
Essa vale come norma complementare e sussidiaria rispetto a quella innovatrice sugli atti persecutori, dalla quale è assorbita, perché meno specifica, ogni volta in cui di quest’ultima ricorrano i più rigorosi elementi costitutivi.
Per ciò che attiene alla condotta materiale del reato va sottolineato che diversi sono stati gli orientamenti della Suprema Corte nel corso del tempo. Si è affermato che esso non è per sua natura necessariamente abituale, in quanto può essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia. Tuttavia in altre pronunce la stessa Corte si è espressa con contenuti diversi sostenendo che la pluralità delle azioni petulanti costituisce elemento costitutivo del reato e non è quindi riconducibile all’ipotesi del reato continuato.
Il contrasto di decisioni è sorto dalla difficoltà di individuare nella reiterazione di atti di disturbo o di molestia la perpetrazione di un unico reato, in antitesi all’ipotesi di ravvisarvi una fattispecie di plurimi reati, da considerare ai fini della pena uniti dal vincolo della continuazione.
La differenza tra le due concezioni è assai rilevante, potendone derivare la diversità dei termini prescrizionali ed anche la diversità delle competenze per territorio degli uffici giudiziari.
La questione la giurisprudenza l’ha risolta tenendo conto del dettato della norma incriminatrice, la quale induce a ritenere che la contravvenzione si realizza in linea tendenziale e secondo l’id quod plerumque accidit, con una pluralità di atti invasivi della sfera privata altrui; e poi, posta di fronte a comportamenti ispirati sicuramente da intento di malanimo, cagione di molestia e disturbo, ma del tutto circoscritti ed isolati nel tempo, si è indotta ad interpretare con una certa larghezza la norma suddetta, in modo da non lasciare il soggetto rimasto vittima di quell’azione, unica ma non accettabile, di una protezione giuridica.
Le contravvenzioni sono, in linea generale, perseguibili sia nel caso in cui in esse si ravvisi una colpa del soggetto agente e sia nel caso in cui l’elemento soggettivo assuma la forma del dolo.
Talune contravvenzioni, tuttavia, fanno eccezione a questa regola che è desunta dal tenore letterale dell’art. 42, ultimo comma del codice penale. E, in particolare, la contravvenzione prevista e punita dall’art. 660 rientra tra quelle che hanno natura dolosa; l’intenzionalità nella quale consiste il dolo appare palese in questo illecito che presuppone l’effettuazione di atti invasivi dell’altrui sfera di libertà, arrecati per petulanza o per biasimevole motivo: vale a dire, con il proposito e con la consapevolezza del disturbo o della molestia che si arrecano.
La giurisprudenza ha affermato che ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato è sufficiente la coscienza e volontà della condotta, accompagnata dalla consapevolezza della oggettiva idoneità di tale condotta a molestare o disturbare senza valida ragione il soggetto che la subisce. In altre pronunce si è parlato espressamente del fine specifico di interferire nell’altrui sfera di libertà. Più risalenti pronunce avevano specificamente chiarito che l’elemento psicologico doveva consistere nel dolo specifico. Tutte hanno posto in evidenza che non è sufficiente che l’agente si renda conto della natura oggettivamente molesta o disturbatrice della propria azione e che occorre, ancora, un elemento intenzionale, che contempla il risultato dell’azione, che riferisce questo risultato ad una persona determinata e che si risolve nella consapevolezza e nella volontà di raggiungere un risultato siffatto.
Una delle modalità di realizzazione del reato in esame è costituita da azioni, petulanti o connotate da biasimevole motivo, che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Quello della petulanza è un termine divenuto decisamente desueto nel linguaggio corrente e ridotto, dunque, ad una nozione pressocchè esclusivamente tecnico-giuridica. In assenza di qualunque definizione di diritto positivo, ad attribuire al termine un contenuto concreto ha dovuto provvedere la giurisprudenza. Per siffatta nozione, si è affermato, non può che intendersi un atteggiamento di insistenza eccessiva, e perciò fastidiosa, di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera di libertà.
Il motivo biasimevole è quello che merita biasimo, di per sé, oggettivamente con riferimento al sentire comune in un determinato momento storico.
La giurisprudenza ha affermato che per esso deve intendersi ogni movente, diverso dalla petulanza, che sia riprovevole in sè o in relazione alla qualità della persona molestata e che abbia praticamente su quest’ultima gli stessi effetti della petulanza.
Come è agevole constatare, diversamente dalla petulanza che è suscettibile di assumere un contenuto abbastanza concreto, per il biasimevole motivo la valutazione è lasciata in modo ampio all’interprete.
Una delle modalità con le quali più di frequente sono state poste in essere azioni di molestia e di disturbo è quella che è stata attuata mediante l’utilizzo del telefono.
Le fattispecie di realizzazione del reato sono ben note e si sono rivelate, nell’esperienza processuale, rispondenti a schemi collaudati. Lo schema tipico è rappresentato dalla ripetizione delle telefonate, in orari diurni e notturni, spesso mute, spesso effettuate come tramite per profferire insulti, qualche volta eseguite soltanto per interrompere il riposo e la tranquillità delle persone prese di mira.
La giurisprudenza ha sempre richiesto, per la configurazione del reato, la pluralità dei comportamenti di disturbo telefonico. Nell’attuale momento, sono da considerare tollerabili le chiamate effettuate per errore, per scherzo, o per motivi di propaganda commerciale, perlomeno nei normali limiti della sopportabilità e della ordinarietà.
Lo sviluppo dei moderni strumenti di comunicazione ha condotto a chiarire che per utilizzo del telefono si intendono non soltanto le chiamate per comunicazioni verbali ma anche le trasmissioni dei messaggi sms; il destinatario di essi è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l’obiettivo di recare disturbo al destinatario.
Per ciò che attiene al rapporto con il più grave reato di molestie sessuali va detto che la molestia si differenzia dall’abuso, anche nella forma tentata, in quanto prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con petulanti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta.

Minaccia (art. 612 c.p.)
612. Minaccia

Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa [c.p. 120; c.p.p. 336], con la multa fino a euro 51.
Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d’ufficio.

La minaccia costituisce una forma di molestia alla tranquillità e alla libertà altrui di specifica rilevanza per la sua intrinseca abitudine a recare turbamento.
Essa è ravvisabile in ogni comportamento valevole a limitare la libertà psichica altrui e pertanto è ritenuta costituita da ogni manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male che possa essergli cagionato dall’autore del fatto o da altri per lui, nella persona o nel patrimonio.
La minaccia consiste nel prospettare ad una persona un male ingiusto il cui avverarsi dipende dalla volontà dell’agente; non è sufficiente, infatti, prospettare il verificarsi di un male. Occorre che sulla verificazione di questo l’agente debba poter influire, nel senso che deve essere lui a poterlo determinare od essere lui a non volerlo impedire. Questo aspetto distingue la minaccia dal semplice avvertimento, che contraddistingue di liceità, ad esempio, il comportamento del medico che avvisa il paziente sulle conseguenze nefaste della prosecuzione della sua alcoldipendenza.
Si è precisato che, poiché l’evento da cui dipende l’esistenza del reato consiste nel turbamento della psiche del destinatario, che si realizza con la stessa rappresentazione del male futuro, il nesso tra la condotta e l’evento dipende proprio dalla disponibilità di quel male da parte di chi lo prospetta.
Il danno ingiusto prospettato può riguardare un bene giuridico qualsiasi, come quelli della vita, dell’incolumità fisica, dell’onore, del pudore, della libertà, ed anche del patrimonio, ove si profili un nocumento economico quale conseguenza di una possibile azione pregiudizievole dell’agente.
Deve trattarsi ovviamente di beni rilevanti per l’ordinamento giuridico e per questa ragione non avrebbe rilievo penale il prospettare il malocchio o il castigo divino.
Per danno si intende ogni lesione o messa in pericolo di un interesse del soggetto passivo. Deve trattarsi di un bene giuridicamente rilevante, deve essere, inoltre, verosimile e realizzabile, altrimenti la prospettazione di un male non avrebbe capacità intimidatrice, come avverrebbe per la minaccia di andare all’inferno o di non riposare per l’eternità. Ma, anche in questi casi occorre riferirsi all’uomo medio, non potendosi giustificare credulità o superstizioni popolari (magia, stregoneria e simili).
Il danno deve essere ingiusto. E’ certamente tale quello contra jus, che costituisce di per sé un illecito. Ma non sempre è necessaria una siffatta contrarietà. Antolisei nel suo noto manuale di diritto penale, porta ad esempio il caso di chi si serve di un rimedio giuridico adoperato per scopi diversi da quelli per i quali è concesso dalla legge (la minaccia di agire esecutivamente per un debito scaduto per ottenere il consenso ad un certo atto): l’ingiustizia del danno è configurata dal fine illecito o contrario al buon costume della prospettazione. La giurisprudenza si è pronunciata spesso in senso concordante con l’affermazione dell’autore citato.
La ratio del reato è quella di proteggere la libertà morale di un individuo contro le inaccettabili intromissioni altrui. Il bene giuridico protetto è quello della tranquillità morale individuale.
Il reato ha inoltre natura generica e sussidiaria. In molte fattispecie di reato, infatti, le minacce sono previste come loro elemento costitutivo (es. rapina) o come loro circostanza aggravante. In taluni casi è la qualità del soggetto passivo a mutare il titolo del reato (es. minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario).
La minaccia è anche uno degli elementi di condotta materiale costitutivi del reato di atti persecutori. I due reati hanno in comune l’elemento psicologico doloso e la natura di illecito pregiudizievole per la libertà morale dell’individuo. Ma la minaccia è soltanto un aspetto, e per di più eventuale, dell’altro più complesso illecito penale, il quale può essere configurato, quanto ad elemento materiale, anche unicamente da plurime condotte di molestia, di per sé non finalizzate all’intimidazione.
Il reato di minaccia è tipico reato di pericolo per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso. E’ sufficiente invece che il male prospettato sia idoneo ad incutere timore nel soggetto passivo menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale.
L’idoneità ad intimidire comporta che la prospettazione del male ingiusto sia idonea a turbare la tranquillità delle persone, secondo un indice medio; non è richiesta l’effettiva intimidazione del soggetto passivo perché questi potrebbe essere un soggetto ipertimoroso o, al contrario, un individuo dotato di un coraggio particolare, cui la minaccia non faccia alcun effetto. L’idoneità va valutata ex ante, riportando l’apprezzamento ad una figura di cittadino medio.
Il delitto di minaccia è, tipicamente, di natura istantanea, posto che non richiede una ripetitività di condotte. Esso si esaurisce con il compimento dell’azione illecita ed è, in genere, un reato di pura condotta.
Il reato è configurato da qualsiasi prospettazione di un danno ingiusto. Il male ingiusto deve essere futuro.
Il modo con il quale la minaccia viene estrinsecata può essere il più vario: orale, per scritti, con disegni espliciti, con gesti, con atteggiamenti espressivi quale il mostrare significativamente un arma. Anche un mero comportamento può integrare il delitto di minaccia se si inserisce in un contesto reiterato di atteggiamenti marcatamente minacciosi.
La minaccia, quindi, può essere esplicita, implicita, diretta o indiretta, reale o simbolica.
Non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa. E’ questo il caso delle minacce trasversali rivolte a persone di famiglia od a persone legate da vincoli di coniugio o di affetto, perché vengano riferite all’effettivo destinatario.
La consumazione del reato avviene quando il soggetto passivo avverte la minaccia, la quale viene udita, letta, veduta o riferita.
L’elemento soggettivo necessario ad integrare il reato è quello del dolo. Esso si configura per la cosciente volontà di minacciare ad altri un ingiusto danno, diretto a provocare l’intimidazione del soggetto passivo, senza che sia necessario che in tale volontà sia compreso il proposito di tradurre in atto il male minacciato.
Il secondo comma dell’art. 612 prevede due circostanze di natura speciale per il delitto di minaccia: la gravità della minaccia e l’uso di un’arma.
Il fatto è grave quando grave è il danno minacciato. La valutazione in proposito non concerne la minaccia nel suo valore assoluto ma quale risultato di un apprezzamento che tenga conto di tutti gli aspetti della vicenda e sia pertanto, ad essa relativo. Di solito è considerata grave la minaccia di morte.
Per la definizione di arma a fini penalistici bisogna risalire a quanto disposto dall’art. 585 codice penale, laddove sono equiparate alle armi vere e proprie tutti gli strumenti atti a offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo.
La minaccia non aggravata è stata attribuita alla competenza per materia del giudice di pace. La minaccia grave è per contro rimasta attribuita al Tribunale monocratico.

Violenza privata (art. 610 c.p.)
610. Violenza privata

Chiunque, con violenza [c.p. 581] o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni [c.p. 29].
La pena è aumentata [c.p. 64] se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339.

Il delitto di violenza privata si configura per il fatto di taluno che, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualcosa. E’ tipico illecito contro la libertà morale individuale ed, anzi, ne rappresenta la figura esemplare.
Esso si consuma ogni volta in cui l’autore, con la violenza o la minaccia, lede il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente e lo costringe a tenere un determinato comportamento che non avrebbe altrimenti voluto. Mentre la violenza e la minaccia costituiscono ipotesi di reato formale (o, come si dice, di pura condotta) e di pericolo, la violenza privata è un reato di danno e di evento.
La libertà morale è la libertà del soggetto di determinare le proprie scelte senza interferenze e condizionamenti, naturalmente con i limiti imposti dall’ordinamento giuridico, dalle convenzioni sociali e dalle abitudini comunemente seguite in un determinato momento storico.
Come per quanto attiene al delitto di minaccia, l’incriminazione della violenza privata tende a difendere il singolo individuo dalle intrusioni altrui nella sua sfera di autonomia di comportamento. L’aggettivo privata ha proprio il significato di sottolineare la natura e la qualità del bene protetto, costituito dall’indipendenza del privato cittadino dalle imposizioni altrui, non giustificate dalla legge o da quanto generalmente ammesso nell’ambito dei consociati.
L’intrusione nella sfera privata altrui assume, nel reato in questione, l’aspetto della costrizione. Rispetto al reato di minaccia, è richiesto l’elemento specializzante della prospettazione di un male ingiusto allo scopo di ottenere un risultato voluto dall’agente ma non voluto dal soggetto passivo che si piega (se il reato è consumato) al volere del prevaricatore. Non è necessario che il detto risultato sia a sua volta illecito; infatti se quel risultato non voluto dal soggetto passivo costituisce un autonomo reato, per l’agente si configura il diverso delitto di cui all’art. 611 del codice penale (violenza o minaccia per costringere a commettere un reato).
Esso prevede e punisce il fatto di chi usa violenza o minaccia per indurre taluno a commettere un reato. La giurisprudenza ha ravvisato in questa figura di reato un aggravante del delitto di violenza privata e non già una fattispecie autonoma.
Mentre la violenza privata si consuma e si realizza nel momento in cui l’agente ha costretto il soggetto passivo a fare, tollerare, omettere qualche cosa, l’altro reato si consuma nel momento stesso in cui viene usata la violenza o la minaccia al fine di costringere o determinare altri a commettere un reato, indipendentemente dal fatto che poi il reato venga effettivamente commesso. La norma ha utilizzato l’espressione “fatto costituente reato” e non quella di reato; ciò sta a significare che tale espressione comprende tutti i fatti che la legge prevede astrattamente come reato anche se in concreto gli autori non siano imputabili o punibili o si tratti di illecito non procedibile d’ufficio.
La mancata tipizzazione della condotta che l’agente intende far tenere a colui verso il quale esercita violenza o minaccia costruisce anche il delitto di violenza privata come un reato di natura generica e sussidiaria. Esso è configurabile ogni volta in cui non si realizza, per il medesimo fatto, una figura giuridica diversa, nella quale la coartazione della libertà morale del singolo è presa in considerazione sotto specifici punti di vista difformi come ad esempio il delitto di attentato contro i diritti politici del cittadino, il sequestro di persona, la rapina ecc..
La condotta che rappresenta l’elemento materiale del delitto di violenza privata richiede l’uso della violenza o della minaccia. Occorre poi che si verifichi nel soggetto passivo (perché si abbia reato consumato) la coartazione della sua volontà.
La violenza è costituita dall’esercizio della forza fisica per vincere un ostacolo ed ottenere un determinato scopo. Nel diritto penale è definita soltanto la violenza sulle cose dall’art. 392, mentre la violenza può essere esercitata anche e soprattutto sulle persone. Essa può venire utilizzata per cagionare direttamente un danno o per coartare la volontà della vittima.
Ai fini della sussistenza del delitto di violenza privata si è chiesto molto meno della vera e propria applicazione dell’energia fisica in danno del soggetto. E’ violenza la “vis corporis in corpore data” (gli spintoni, l’immobilizzazione ecc.) ma anche qualunque minore forma di aggressione (come l’aizzare un cane).
L’idoneità della violenza va valutata anche in rapporto alle condizioni fisiche e psichiche del soggetto passivo.
La giurisprudenza ha enucleato il principio generale, secondo cui, per la configurabilità del delitto di violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali, diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione costringendo a fare, tollerare od omettere qualcosa.
Si dice, quindi, propria la violenza integrata dall’uso della forza fisica; impropria quella posta in essere con qualsiasi altro mezzo che conduca allo stesso risultato di annullare o limitare la capacità della vittima.
La distinzione riposa su un argomento di diritto positivo, posto che l’art. 613 del codice penale punisce dei mezzi diversi dall’impiego della mera forza fisica, cagionanti il detto risultato di soppressione dell’altrui libertà morale.
Per quanto riguarda la minaccia resta fermo quanto già detto precedentemente. Qui ricordiamo che anche a proposito del delitto di violenza privata, si è ripetutamente affermato in giurisprudenza, che non è necessaria una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare, omettere.
La norma incriminatrice utilizza il verbo costringere per indicare non soltanto la coartazione assoluta, che esclude totalmente la volontà del soggetto passivo (la minaccia sotto il tiro di un’arma da fuoco) ma anche una coartazione relativa, che restringa in modo apprezzabile il potere del soggetto di autodeterminarsi.
Il costringimento si risolve nel pretendere dalla vittima che essa compia una determinata azione o si astenga dall’effettuarne una (fare, omettere); oppure che sopporti una certa situazione e tenga una condotta passiva (tollerare).
Il fatto oggetto del costringimento deve essere illegittimo, vale a dire, non deve ricorrere una causa di giustificazione in forza della quale l’agente abbia il potere giuridico di imporre al soggetto passivo un certo comportamento.
A tal proposito la giurisprudenza ha precisato che la coazione deve ritenersi giustificata non solo quando ricorra una delle cause di giustificazione previste dagli artt. 51-54 codice penale ma anche quando la violenza o la minaccia sia adoperata per impedire l’esecuzione o la permanenza di un reato (secondo, ovviamente, un criterio di proporzionalità tra il mezzo adoperato ed il reato che si intende impedire); invece la violenza o la minaccia sono punibili se con esse si voglia costringere altri ad adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta genericamente illecita o immorale.
L’azione o l’omissione che la violenza o la minaccia sono rivolte ad ottenere devono essere determinate: se manca questa determinatezza, si configurano i diversi reati di minacce, molestie, ingiurie ma non quello in questione.
La violenza privata ha natura di reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l’altrui volontà sia rimasta di fatto costretta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, senza che sia necessario il protrarsi nel tempo dell’azione o dell’omissione o il permanere degli effetti.
Al contrario della minaccia che ha natura formale, la violenza privata è un reato di danno, nel quale la condotta sanzionata si realizza con la coartazione della volontà altrui e l’evento lesivo si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita.
Se la costrizione non si verifica per un fatto indipendente dalla volontà del colpevole, si configura il tentativo. La configurabilità del tentativo di violenza privata non esige che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, essendo sufficiente che si tratti di minaccia idonea ad incutere timore e diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente. Il tentativo di violenza privata può essere commesso non solo nei confronti di persone determinate, ma anche nei confronti di persone sconosciute.
Per quanto riguarda, infine, l’aggravante dell’uso dell’arma si rimanda a quanto detto con riferimento al delitto di minaccia.

611. Violenza o minaccia per costringere a commettere un reato
Chiunque usa violenza o minaccia per costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a cinque anni [c.p. 29, 32].
La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339.

613. Stato di incapacità procurato mediante violenza.
Chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d’incapacità d’intendere o di volere, è punito con la reclusione fino a un anno.
Il consenso dato dalle persone indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo 579 non esclude la punibilità.
La pena è della reclusione fino a cinque anni [c.p. 29, 32]:
1. se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato;
2. se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto [c.p. 86, 690, 691, 728].

IL REATO DI ATTI PERSECUTORI (ART. 612 BIS C.P.)

612-bis. Atti persecutori.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Introduzione: lo “stalking” come fenomeno di diffusione recente

Il termine stalking ha origine venatoria e significa, letteralmente, fare la posta ad una preda.
Esso descrive un comportamento tipizzato dalla sorveglianza su una vittima, scelta come destinataria di condotte per essa moleste e resa oggetto di attenzioni molto spesso sintomo di vere e proprie patologie.
Il concetto essenziale che corrisponde al termine suddetto è quello di una persona che viene braccata da un’altra, fino al punto da essere avvertito come persecutore.
Il fenomeno dello stalking assunse questa denominazione negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80, a seguito di gravi fatti che ebbero per soggetti passivi personaggi famosi dello spettacolo. Attori e attrici furono letteralmente perseguitati da ammiratori che non concessero loro respiro e discrezione. Il fenomeno si impose così all’attenzione di sociologi, medici legali e psichiatri come emersione di un atteggiamento che diventava ripetitivo ed assumeva diffusione.
Nel 1991 in California venne emanata la prima legge anti-stalking.
Altri Paesi seguirono l’esempio, posti di fronte ad episodi che evidenziavano la gravità della situazione. Così nel Regno Unito dove nel 1997 fu emanato un “Protection from harassment act” che prevede una figura criminosa in larga parte ispiratrice di quella italiana degli atti persecutori oppure l’art. 238 del codice penale tedesco (come riformulato nel 2007).
In Italia il reato di stalking è stato introdotto con il D.L. 23 febbraio 2009 n. 11, dedicato alle “misure urgenti in materia di pubblica sicurezza e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38 che ha introdotto l’art. 612 bis del codice penale.
L’introduzione del reato di atti persecutori è parte di una iniziativa mirata ad uno scopo per larga parte diverso. Il decreto legge succitato, infatti, si prefissava di disporre misure di contrasto alla violenza sessuale e di protezione della donna, quale soggetto debole tipicamente vittima di intemperanze e di aggressioni maschili.
Il provvedimento contenente la normativa sugli atti persecutori nasce, dunque, in un contesto ben preciso e, potremmo dire, unidirezionale, in base alla constatazione, non soltanto empirica per cui il soggetto da proteggere è quasi sempre femminile. Ciò non toglie, naturalmente, che disposizioni quale quella in oggetto possano avere un ambito di applicazione generalizzato, in quanto il terreno nel quale esse sono maturate ha fornito in pratica l’occasione per una operazione urgente, ma non anche una delimitazione a senso unico di tale ambito.
Nella relazione parlamentare si legge: “la violenza nei confronti delle donne e gli omicidi con movente sessuale o passionale sono spesso annunciati da una serie di atti insistenti e ripetuti (telefonate notturne, pedinamenti, appostamenti ecc.) che attualmente non trovano nel nostro ordinamento idonei strumenti di contrasto. Del tutto inadeguata ad arginare tale fenomeno è la configurazione del reato di molestie. Da qui la necessità di creare una nuova fattispecie che dilati, e al contempo anticipi, la tutela della vittima. Ecco dunque che il disegno di legge (n. 1440) è diretto a colmare un vuoto normativo e di tutela non più sostenibile”.
E, con riferimento alle condotte di stalking, spesso contrassegnate da una vera e propria escalation, nella stessa relazione si affermava: “viene lesa sia la libertà personale sia la riservatezza delle persone. E talora i danni riguardano la stessa incolumità fisio-psichica, nella forma dello stress psicologico. I beni giuridici messi in pericolo o lesi dalle condotte di stalking sono dunque di grande rilevanza, anche nelle ipotesi in cui l’esito delle vicende non sia drammatico. A fronte di un fenomeno così grave ed in forte aumento nella moderna società tecnologica, ed in un ambiente sempre più anonimo e di perdita di coesione sociale, l’ordinamento reagisce con misure troppo blande”.
Gli atti persecutori non costituiscono un fenomeno che interessa unicamente il diritto penale. Il caso paradigmatico dello stalking è quello di un soggetto agente (stalker) che individua un altro soggetto sul quale polarizzare il suo interesse ideo-affettivo e nei cui confronti pone in essere numerosi comportamenti di sorveglianza, di contatto e di ricerca di comunicazione.
Si tratta, in genere, di personalità deboli, che per paura dell’abbandono e per la ricerca di una identità si attaccano morbosamente a qualcuno.
Lo stalker è, per primo, vittima egli stesso della persecuzione ossessiva che attua nei confronti del destinatario della sua attenzione.
Lo strumento della repressione penale non costituisce un mezzo sufficiente ad impedire eccessi ed a riportare ad un comportamento ordinato l’autore di condotte persecutorie.
Ad un siffatto strumento vanno affiancate terapie e forme di vigilanza che incidano sull’individuo al fine di fargli recuperare un equilibrio psichico quasi sempre compromesso.
Lo stalker è sovente un individuo con temperamento border-line, spesso esaltato ed eccitato da un sentimento obnubilante e totalizzante, con perdita del senso delle proporzioni.
Per la vittima del reato le molestie assillanti possono costituire un semplice intralcio alle normali abitudini di vita ma possono anche trasformarsi in un incubo esasperante che porta al mutamento radicale delle stesse abitudini. Le molestie possono assurgere a vere e proprie situazioni condizionanti l’equilibrio psichico, soprattutto se accompagnate da minacce, da aggressioni fisiche, da lesioni. Le ripercussioni sulla psiche e sul carattere possono diventare gravi e cronicizzarsi, trasformandosi in stati d’ansia permanente, in disturbi da stress ben identificabili in medicina legale.
Ove l’effetto degli atti persecutori si traduca in una vera e propria patologia, non sarà sufficiente esibire al riguardo un semplice certificato medico ma occorrerà un accertamento tecnico medico-legale. In quanto elemento costitutivo del reato, di un siffatto evento dovrà fornire la prova la pubblica accusa.

Tipicità della condotta

Un problema di rilievo che il legislatore ha dovuto affrontare nel formulare una norma descrittiva del reato di atti persecutori è stato quello di trovare espressioni sufficientemente ampie per ricomprendere la multiformità delle fattispecie suscettibili di essere annoverate in quella nozione e, nello stesso tempo, adeguatamente sintetizzate per coniugare il principio di tassatività delle previsioni di illecito penale con l’opportunità di evitare diffuse casistiche, mai esaurienti.
Il problema fu risolto rinviando, semplicemente, a nozioni ormai acquisite in dottrina e giurisprudenza, fatte divenire elementi componenti della nuova figura di reato. Gli atti persecutori consistono, in definitiva, in atti di minaccia e di molestia. Entrambe costituiscono oggetto di norme di diritto positivo che hanno subito una vasta elaborazione nel tempo e che hanno raggiunto un risultato interpretativo stabile ed idoneo a rappresentare l’elemento di certezza necessario a soddisfare l’esigenza della tassatività, per legge, delle norme incriminatici.
Pertanto, le questioni concrete cui darà luogo l’applicazione pratica della nuova normativa riguarderanno, piuttosto, il rapporto tra le minacce e le molestie e l’effetto occorrente a configurare il più complesso e diverso reato di atti persecutori e cioè se alla minaccia o alla molestia è conseguito l’effetto pregiudizievole per la libertà morale del soggetto passivo che l’art. 612 bis esplicitamente pretende e descrive.

Natura giuridica

Il legislatore ha attribuito al delitto di atti persecutori natura di illecito lesivo del bene giuridico costituito dalla libertà morale.
Gli atti persecutori, considerati nella loro natura sostanziale di comportamenti vessatori che conducono ad una mortificazione delle condizioni soggettive della vittima, incidono per definizione sulla sua autonomia di determinare le modalità del proprio comportamento e turbano quegli aspetti complementari ma indispensabili, di quiete e di tranquillità, sui quali una siffatta autonomia necessariamente si fonda.
A questo proposito va notato che una lesione del bene giuridico della libertà morale, nel senso sopra chiarito, è particolarmente avvertibile nei casi in cui il reato di atti persecutori si configura per l’evento di far mutare al soggetto passivo le abitudini di vita con uno schema che è assai vicino a quello della violenza privata, che costituisce l’esempio più rilevante della categoria di illeciti offensivi del bene giuridico in questione. Meno avvertibile la stessa lesione invece nei casi in cui gli atti persecutori cagionano una grave e perdurante stato d’ansia o di paura od un fondato timore per l’incolumità, con risvolti che attengono all’equilibrio psico-fisico della persona. Vengono in rilievo, al riguardo, il danno alla salute e il danno all’incolumità personale, quali beni ulteriori concretamente aggrediti dalla serie di atti persecutori. In questo senso può dirsi che il reato in esame ha natura eventualmente plurioffensiva.
Il reato di atti persecutori è tipico illecito di struttura abituale. Si intende con questa definizione un reato che richiede una pluralità di azioni come elemento materiale della condotta.
L’art. 612 bis è chiaro nel richiedere una reiterazione di minacce o di molestie, conformemente al modello astratto di una condotta riprovevole perché continuativa, prolungata, ripetuta, nei suoi aspetti ed effetti sgraditi e disturbatori. La stessa rubrica della disposizione citata è esplicita nel completare la descrizione del fatto criminoso. Gli atti devono essere persecutori ed in questa nozione è essenziale il riferimento ad un comportamento che per la sua ossessività e ripetizione assillante assume il connotato della non ulteriore sopportabilità.
Attraverso il requisito della reiterazione il legislatore ha recuperato determinatezza alla descrizione della fattispecie tipica, la quale richiede una pluralità di episodi minacciosi e molesti.

La reiterazione degli atti e la materialità della condotta persecutoria

Reiterazione di atti significa ripetizione di comportamenti aventi le medesime caratteristiche. Riferita alle minacce ed alle molestie essa implica la pluralità di gesti e di azioni caratterizzati dal contenuto intimidatorio e dal connotato molesto per chi ne rimane destinatario.
Gli atti possono essere omogenei tra loro oppure eterogenei. La norma incriminatrice li pone sullo stesso piano, essendo indifferente che nel caso concreto si tratti di protrazione di intimidazioni oppure della prosecuzione di azioni disturbatrici; o che le une si alternino alle altre. La reiterazione comporta ovviamente che gli atti siano distinti l’uno dall’altro e, di conseguenza, che si susseguano nel tempo. Il reato non sarebbe configurato da una singola azione e neppure da una azione che si prolunghi per un certo lasso temporale, dando luogo a permanenza.
Ciascuno dei fatti costituisce di per sé un reato e, in qualche caso, un reato procedibile d’ufficio, ove conosciuto.
Si configura un reato diverso, comprensivo ed autonomo, soltanto se i singoli fatti vengono legati da un elemento comune, rappresentato dall’identità dell’agente, dalla ripetizione e dalla loro caratteristica di essere idonei a cagionare un determinato risultato sulla psiche o sulle abitudini del soggetto passivo.
L’esperienza ha insegnato che nei confronti delle persone prese di mira, le minacce e le molestie sono state poste in essere molto spesso attraverso lettere anonime o comunicazioni telefoniche. Sono stati frequenti i casi di missive contenenti frasi minatorie, ricattatorie od offensive, ed altrettanto frequenti i casi di disturbo arrecato con il mezzo del telefono.
Ciò non toglie, però, che minacce e molestie possano concretarsi in atteggiamenti e condotte diverse, quali gli appostamenti, i pedinamenti, le fastidiose ed insistenti presenze, gli stazionamenti nei pressi dell’abitazione, della scuola, del luogo di lavoro, il compimento di atti vandalici allusivi e di dispetti, la collocazione di oggetti dal significato inquietante e altre simili condotte.
L’esperienza ha posto in luce la estrema varietà dei modi con i quali è stata attuata l’ingiustificata interferenza nell’altrui sfera di libertà, con risvolti altamente invasivi e capaci di instillare nella vittima un senso di oppressione, di tensione e di paura.

Reato di evento o reato di pericolo?

Nel testo della norma si legge che è punito colui che esercita reiterate minacce o molestie “…in modo da cagionare…” un certo effetto a danno del soggetto passivo.
L’espressione utilizzata è in astratto compatibile con due interpretazioni, cui conseguono considerazioni significativamente difformi.
Per una, quell’espressione descrive una idoneità oggettiva della condotta reiterata, che deve, appunto, essere tale da causare quel determinato risultato pregiudizievole, ma senza che necessariamente un siffatto risultato debba essersi verificato. In tal senso il reato in questione sarebbe di pericolo, concreto, e l’eventuale risultato prodottosi nel caso specifico sarebbe un quid pluris rispetto alla figura di reato (dal quale, se mai, desumere la prova dell’effettiva idoneità della condotta a determinare il pericolo).
Per l’altra possibile interpretazione il reato di atti persecutori ha natura di reato di evento ed implica che la serie di atti intimidatori o molesti produca realmente nel soggetto passivo lo stato di ansia, la paura, il timore o il mutamento di abitudini indicati specificamente nella norma punitiva.
Inizialmente, nella originaria formulazione della norma si pensò al reato come di pericolo, basandosi sulla considerazione della difficoltà di dimostrare in concreto lo stato d’ansia e quello di paura. Successivamente si ritenne che il consentire la configurabilità del reato già con la sola idoneità della condotta a cagionare situazioni pregiudizievoli avrebbe dilatato eccessivamente la soglia di applicazione della norma. Fu pertanto ritenuto opportuno configurare la nuova fattispecie delittuosa come reato di danno, per ancorarla a situazioni effettivamente meritevoli di una risposta dell’ordinamento incisiva e pesante nella sanzione.
Solo così si può comprendere appieno l’ambito di applicazione del nuovo istituto. Esso implica la perpetrazione di minacce e molestie ma non si identifica in esse. La differenza tra minacce e molestie continuate e atti persecutori non può risiedere nel grado maggiore o minore della intrinseca attitudine a provocare sensazioni afflittive nel destinatario. Lo stesso requisito della reiterazione non può comportare differenza, in quanto la pluralità delle minacce e delle molestie, se rispondenti ad un unico disegno criminoso, costituisce motivo per applicare la continuazione di reato.
Pertanto si deve concludere nel senso di ritenere che il delitto di atti persecutori sia un reato di evento in quanto la norma punitiva pretende che le minacce e/o le molestie non siano soltanto reiterate, per dar vita al più complesso illecito, ma siano tali da cagionare effettivamente stati soggettivi pregiudizievoli che di seguito si vanno ad enucleare.
L’evento del reato di atti persecutori è indicato dalla norma incriminatrice con riferimento a tre fattispecie ugualmente sufficienti ed idonee ad integrare l’elemento costitutivo: il perdurante e grave stato d’ansia; il fondato timore per l’incolumità fisica; il mutamento delle abitudini di vita.
Lo stato d’ansia e di paura deve essere perdurante e grave. Con questi due aggettivi si è palesemente voluto escludere dalla rilevanza per la configurazione dello specifico reato in questione quanto costituisce l’effetto ordinario e comune delle minacce e delle molestie.
La scelta dei termini lessicali ad opera del legislatore è volta ad evitare che una rilevante figura criminosa venga a dipendere da sensazioni momentanee o fugaci, di difficilissima prova e sostanzialmente trascurabili, se non nei limiti in cui è prevista la modesta pena per i fatti di cui agli artt. 612 e 660 codice penale.
Si ritiene, pertanto, che ansia e paura debbano essere diagnosticate da un esame medico legale o comunque assumere manifestazioni esterne chiaramente riconoscibili e concretamente apprezzabili.
Il confine con le lesioni vere e proprie alla sfera psichica potrebbe diventare difficile da identificare, quando gli stati soggettivi si trasformano in condizioni patologiche da stress o da altro, suscettibili di essere catalogate come malattia per la medicina legale.
In ogni caso, sembra rispondere a coerenza esigere che degli stati d’ansia si debba fornire una prova convincente e che, di conseguenza, le dette condizioni soggettive debbano essere trasparentemente apprezzabili per le manifestazioni nel mondo esterno.
La gravità richiesta dalla norma punitiva dipende, in genere, dalla gravità intrinseca delle minacce ricevute, dalla pericolosità dell’agente e dalle circostanze che nel concreto ne fanno apprezzare la estrema probabilità di verificazione del danno ingiusto.
La protrazione dello stato soggettivo può durare per quanto si susseguono le azioni disturbatrici, ma pare più conforme alla lettera della norma punitiva ritenere che essa corrisponda ad una alterazione irreversibile e patologica.
Il timore per l’incolumità propria o di persone legate da vincoli di sangue o di affetto deve essere fondato. Esso, dunque, non può essere immaginario o semplicemente ipotizzato; per assumere rilevanza, deve trovare riscontro in elementi concreti ed univoci, denotanti proprio la possibile e probabile evoluzione di una vicenda oppressiva verso eventi aggressivi e drammatici.
Come si sa molti episodi criminosi di tal genere sono spesso stati “annunciati” da una rintracciabile escalation di violenze. Proprio questa è la situazione tipica alla quale si intendeva porre un freno. Costituiva dato di esperienza comune l’attitudine dei fatti di stalking a salire in virulenza ed a trasformarsi dalle iniziali interferenze nella vita quotidiana della vittima in sempre più gravi episodi di aggressione.
La configurazione del delitto di atti persecutori ha ad oggetto una situazione che si ferma ad una fase antecedente a quella potenzialmente tragica, e mira a prevenirla.
Molto opportunamente la norma incriminatrice equipara il timore per l’incolumità propria a quello che si prova per l’incolumità di persone “amiche”. Diversi sono stati i casi che manifestavano malanimo, gelosia e odio verso figure sostitutive del proprio precedente ruolo, rivolte a colpire indirettamente colui che, per lo stalker, aveva la grave colpa di avergli preferito un altro.
Il mutamento di abitudini di vita, è fatto constatato dall’esperienza come comportamento necessitato cui la vittima di atti di persecuzione ricorre per cercare di sottrarsi agli stessi.
E’ frequente che vittime di appostamenti e pedinamenti mutino il percorso che le conduce a scuola, a casa od al lavoro. O che non rispondano più al telefono e chiedano agli enti gestori il distacco degli apparecchi e l’eliminazione del loro nominativo dagli elenchi. O ancora si facciano accompagnare da terze persone per la paura di rimanere da sole con chi le molesta o le intimidisce.
Si tratta, in genere, di precauzioni adottate per non fornire ulteriori occasioni di essere disturbati, a prezzo, però, di alterare e modificare i propri ritmi di vita quotidiana, le proprie forme di distrazione, le scelte minute che ordinariamente regolano il rapporto con l’esterno e la fruizione dei beni collettivi.
Di queste situazioni può darsi abbastanza facilmente la prova, attraverso testimonianze ed analoghi mezzi idonei a descrivere il modus vivendi precedente e gli espedienti difensivi escogitati in seguito.
La prova deve riguardare, però, non soltanto l’alterazione delle abitudini di vita, come diversità tra due differenti periodi temporali. Ma deve fornire anche dimostrazione del fatto che questa diversità è stata cagionata dalla serie reiterata di minacce e di molestie altrui dovendo esistere uno specifico nesso causale tra le condotte disturbatrici e la reazione posta in essere dal soggetto passivo.

Tentativo

Quale reato di evento, il reato di atti persecutori è, di per sé, astrattamente compatibile con il tentativo.
Ogni volta in cui non si verifichi l’evento della condotta e questa assuma i connotati della univocità e della idoneità, esiste spazio per la configurazione di un tentativo punibile; nonché ove ne ricorrano le condizioni, per una desistenza volontaria e per il cosiddetto ravvedimento operoso.
In realtà l’applicazione pratica del principio alla specifica figura del reato in questione mostra qualche difficoltà, a causa della stessa struttura dell’illecito.
Il reato, che ha indubbia natura di reato a condotta plurima, è costruito come una serie prolungata di comportamenti, ciascuno, a costituire autonomi illeciti penali, di minaccia o di molestia. Il fatto che non si verifichi l’evento di pregiudizio per il soggetto passivo, per effetto di un fattore esterno, impedisce la consumazione del reato, ma lascia sopravvivere i distinti episodi di reato commessi.
Sarà assai difficile dimostrare nel caso concreto che se le azioni di disturbo fossero continuate si sarebbe verificato l’evento di reato; e che per contro il comportamento dell’autore non si sarebbe risolto in una mera serie di intimidazioni e di atti petulanti, sorti sotto lo stimolo dell’occasione e non volutamente cercati in attuazione di un intento persecutorio.
Ci si è chiesti in dottrina se il reato in parola possa considerarsi anche come reato permanente.
Anche in questo caso viene in evidenza la peculiare struttura dello stesso. Sino a che non si è realizzato l’evento l’agente compie plurime minacce e molestie, senza che si individui ancora una fattispecie delittuosa più grave ed assorbente.
E’ dunque da ritenere che prima di questo evento sussista una fase prodromica ed incerta, nella quale, se interrotta, si tratterà di stabilire se è ravvisabile un tentativo od un reato continuato.
Successivamente alla realizzazione dell’evento, il reato venuto a configurazione è certamente permanente, in dipendenza della protrazione delle condotte illecite del suo autore.

L’elemento soggettivo del reato

E’ indubbio che questo tipo di reato non possa configurarsi a mero titolo di colpa. Esso ha natura di delitto e questa natura conduce direttamente ad applicare il principio, desumibile dall’art. 42 del codice penale, secondo il quale il delitto è ordinariamente doloso, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente previsti dalla legge.
A parte questa considerazione, in ogni caso è la stessa struttura del reato in questione ad indicare che per la sua configurazione si richiede che l’autore abbia agito reiteratamente con intenzione, rendendosi conto della portata delle sue condotte.
Molteplici sono gli aspetti che impongono di ritenere il reato di atti persecutori di natura dolosa.
Il primo di essi è rappresentato dalla reiterazione delle condotte, che di per sé implica una volontà ripetuta di perpetrare le medesime azioni moleste o minacciose verso un determinato soggetto.
Altro elemento è quello della unidirezionalità della condotta complessiva, che deve essere rivolta in danno dello stesso soggetto passivo.
Gli ulteriori elementi si desumono dalla qualità dei comportamenti che, reiteratamente posti in essere, conducono a configurare il reato. La minaccia è, di per sé, un delitto che implica la sussistenza del dolo. Della molestia si è affermata in giurisprudenza la medesima natura dolosa, per di più caratterizzata dalla direzione della volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà.
Sembra necessario, inoltre, ritenere che il reato di atti persecutori richieda il dolo specifico. Le azioni moleste e di minaccia devono essere di per sé idonee a cagionare effetti lesivi e questa caratteristica deve essere conosciuta e voluta dall’agente. Di per sé la minaccia si configura anche soltanto per il dolo generico, ma il complesso reato suddetto si configura mediante una ripetizione di atti che non soltanto è rivolta a prospettare un male ingiusto, la cui attuazione dipende dal soggetto minacciante. Occorre infatti e inoltre che la reiterazione assuma il connotato della persecuzione, la quale comporta naturalmente effetti che sono ulteriori rispetto alla singola azione intimidatrice e molesta. L’illecito si caratterizza proprio per il fatto che taluno sottopone volontariamente e consapevolmente ad una serie di comportamenti che egli sa bene essere produttivi, nel volgere del tempo, di un risultato pernicioso che è previsto e che è parte stessa della condotta attuata dall’agente.
Si ritiene non sussistente la possibilità di configurare la punizione a titolo di dolo eventuale. Ad un certo punto della progressione diverrebbe impossibile per l’autore del reato sostenere di non avere avuto la percezione dell’effetto che la loro protrazione poteva cagionare sulla vittima.
Sia la specifica intenzionalità della molestia di voler arrecare disturbo ed interferenza indebita e sia la necessità di differenziare non soltanto sul piano concettuale il reato di atti persecutori da quello di molestia continuata o di minaccia continuata, sembrano imporre una conclusione restrittiva.

Imputabilità

La questione dell’imputabilità o, meglio, dei vizi che la escludono o la diminuiscono può presentarsi con una certa rilevanza a proposito del reato di atti persecutori, che è caratterizzato per definizione da aspetti di anormalità sotto il profilo soggettivo della condotta dell’agente.
Viene perciò in considerazione il vizio di mente del quale si occupano gli artt. 88 e 89 codice penale. Per tale si intende, nel nostro diritto penale, uno stato mentale derivante da infermità. Questa deve avere escluso o grandemente scemato la capacità di intendere e/o di volere del soggetto e ovviamente deve essere in stretto collegamento con il fatto illecito, posto che deve essere esistita nel momento di estrinsecazione della condotta e su questa deve avere influito.
Negli anni la Corte di Cassazione ha dilatato con le sue sentenze il concetto di vizio di mente fino al riconoscimento anche di alcuni disturbi della personalità come idonei ad incidere sulla capacità di intendere e di volere.
Per il reato di atti persecutori, un importante argine ad una eccessiva dilatazione delle nozioni di vizio totale e parziale di mente può trarsi dal fatto che il reato in questione richiede una reiterazione di atti suscettibile di cagionare un determinato effetto pregiudizievole sulla persona presa di mira. Occorrerà, a chi invoca la mancanza o la riduzione dell’imputabilità, poter sostenere che lo stato psicologico viziato ricorreva per tutta la durata della protrazione delle condotte illecite.
I singoli atti, di volta in volta, possono essere sorretti da capacità piena od essere dovuti a disequilibrio valutabile come vizio di mente. Ma il reato in parola si configura per la serie di molestie e di minacce, sorrette da una ideazione e volizione finalizzata ad interferire negativamente nella vita altrui. Ed è dunque con riferimento al complesso delle condotte ed a quella finalità che le riunisce che va condotta l’indagine concernente l’imputabilità dell’agente.

Procedibilità

L’ultimo comma dell’art. 612 bis, dispone a titolo generale, che il delitto di atti persecutori è punito a querela della persona offesa.
Ciò è determinato dalla necessità di lasciare alla stessa vittima del reato la scelta sul rendere note, inevitabilmente, attraverso l’accesso alla giustizia, vicende mortificanti e che si può preferire non vengano diffusamente conosciute.
Sentimenti di vergogna per accadimenti dei quali si è rimasti vittime e desiderio di riservatezza possono indurre l’offeso a rinunciare a chiedere la punizione del colpevole di atti lesivi. E, in ambienti familiari o ristretti, può essere l’intento di non aggravare i rapporti a consigliare di non radicalizzare situazioni già di per sé conflittuali.
La querela si estende di diritto a tutti coloro che hanno commesso il reato. La circostanza può assumere rilievo nei casi in cui la condotta persecutoria è posta in essere da più autori. Si pensi, ad esempio, alle ipotesi di mobbing collettivo che trasmodino, per il contenuto minaccioso ed oggettivamente molesto, in un vero e proprio episodio di reato di atti persecutori.
Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi.
E’ regola generale che per la proposizione della querela sia fissato un lasso di tempo oltre il quale l’esercizio del relativo diritto è precluso; il trascorrere del tempo, infatti, conduce alla stabilizzazione delle situazioni giuridiche ed al consolidamento degli assetti di fatto.
Quello dell’art. 612 bis è uno dei casi in cui è stabilita una durata diversa del termine ordinario di tre mesi entro il quale si può proporre querela.
Esso ricorda quello che l’art. 609 septies prevede in relazione ai delitti di violenza sessuale; in quel caso però la querela è irrevocabile.
La differenza con il reato di violenza sessuale ha evidentemente giustificato una disciplina corrispondentemente diversa. Gli atti di violenza sessuale comprimono oltre alla libertà morale del soggetto-vittima anche il suo pudore, il suo diritto ad esercitare, con l’esclusivo proprio consenso, la libertà sessuale nonché la sfera più profonda della riservatezza e dell’intimità.
Il reato di atti persecutori lede la libertà morale del soggetto e le circostanze di fatto possono consentire che l’iniziale volontà di far punire il colpevole venga superata con una risoluzione contraria che non contrasta con esigenze superiori di reazione giuridica al delitto.
Inoltre, la possibilità che la querela venga rimessa sembra costituire uno strumento efficace, a disposizione del soggetto passivo, per ottenere ciò che appare più rilevante per una vicenda persecutoria: che l’autore desista dalle sue azioni di disturbo, se non vuole affrontare le conseguenze penali della condotta.
Per ciò che attiene poi alla decorrenza si può dire che a differenza di altri reati, tra cui la stessa violenza sessuale, in cui la stessa è ben identificabile, posto che essa coincide con il momento nel quale la persona offesa del reato subisce la violenza, per il reato di atti persecutori ci potrebbero essere dei problemi di applicazione pratica in quanto molto difficile è dire quando lo stesso si è consumato o piuttosto si sono consumate delle semplici molestie o minacce.
Sul punto il legislatore ha affidato la determinazione all’interprete, fidando nei principi generali del diritto penale e processuale penale.
In ogni caso, il problema non è suscettibile di una soluzione unica valida per tutte le multiformi fattispecie che la realtà può presentare.
Fortunatamente la speciale lunghezza del termine previsto per la proposizione della querela può supplire alle incertezze insorte in concreto.
Gli articoli 612 bis del codice penale e l’art. 8 del D.L. n. 11/09 prevedono situazioni nelle quali la procedibilità per il reato di atti persecutori è d’ufficio. In questi casi le esigenze della repressione penale sono state considerate prevalenti rispetto alla necessità di tutelare il riserbo e la discrezione della persona offesa.
La prima è quella del minore d’età. Esso, ovviamente, è un soggetto che gode di speciale protezione quando è vittima di fatti illeciti. La ragione di questa speciale protezione sta nella diminuita capacità di reagire di questi soggetti, non ancora giunti al pieno sviluppo fisico e psichico e nella loro maggiore sensibilità alle azioni che possono creare effetti perniciosi sul loro intelletto e sul loro temperamento. Si comprende pertanto, in questo contesto, come trovi piena giustificazione una procedibilità d’ufficio per il reato di atti persecutori, che implica proprio effetti sull’equilibrio psico-fisico della vittima.
Analoghe considerazioni vengono fatte relativamente alle persone disabili così come individuate dall’art. 3 L. 104/92 (che fornisce una nozione ampia e generica lasciando la concreta determinazione dei fattori di handicap agli operatori del settore).
L’esperienza ha mostrato come proprio i più deboli e i meno fortunati siano oggetto di azioni vessatorie, derisorie e mortificatrici ad opera di insensibili autori di molestie gratuite a loro danno.
Altro caso di procedibilità d’ufficio è quello della connessione con altro delitto procedibile d’ufficio. La connessione è sostanzialmente configurabile quando i due fatti siano intimamente legati tra loro in guisa tale da non potersi conoscere di quello perseguibile d’ufficio senza svelare anche la condotta integratrice dell’altro.
Tale condizione può verificarsi anche se i fatti in questione siano emersi in tempi diversi ed abbiano dato luogo a procedimenti distinti, come pure indipendentemente dalla circostanza che per il reato perseguibile d’ufficio l’imputato sia stato assolto per oggettiva inesistenza del fatto.

Pena

L’art. 612 bis prevede per il reato di atti persecutori la pena edittale da sei mesi a quattro anni di reclusione.
Non è prevista una pena pecuniaria posto che almeno nella sua configurazione tipica, il reato non offende interessi patrimoniali.
La pena può essere sostituita dal giudice ai sensi dell’art. 53 L. 689/81 con una pena pecuniaria della specie corrispondente (entro il limite di sei mesi) con la libertà controllata (entro il limite di un anno) e con la semidetenzione (entro il limite di due anni).

Circostanze

L’art. 612 bis prevede alcune situazioni che operano come circostanze aggravanti del reato e comportano, dunque, un aumento della pena stabilita per il reato non aggravato.
Sono, inoltre, compatibili con il delitto in argomento molte delle circostanze aggravanti comuni, in quanto previste in generale come riferibili alla grande maggioranza degli illeciti penali.
La pena per il delitto di atti persecutori è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che era stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
Colui che non si rassegna alla perdita del partner si rende sovente autore di vere e proprie persecuzioni nei confronti dell’altro, specie se questi si ricostruisce una vita alternativa, con conseguenze talvolta tragiche e comunque di sofferenza per i figli minori e per l’ambiente familiare abbandonato.
La disposizione si riferisce, in primo luogo, a situazioni regolate dalla legge (separazione o divorzio); non fa riferimento alla separazione di fatto che è situazione priva di effetti giuridici ed, anzi, inosservante degli obblighi di coabitazione e di fedeltà del vincolo matrimoniale.
Ma l’ulteriore precisazione normativa, per cui l’aggravante sussiste anche se il fatto è commesso da persona che sia legata da relazione affettiva alla persona offesa, consente di ritenere che anche la separazione di fatto sia terreno idoneo a supportare l’aggravante, così come lo è la relazione affettiva tra conviventi o la semplice frequentazione motivata da sentimenti di innamoramento, non sfociata in un matrimonio o in una convivenza more uxorio.
In questi casi, poiché l’art. 612 bis, secondo comma, si limita a disporre che la pena è aumentata, se ricorre la detta aggravante, si applica l’art. 64 del codice penale, il quale dispone che, se l’aumento non è determinato dalla legge, la pena base è aumentata fino ad un terzo.
La pena è invece aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con le disabilità di cui all’art. 3 L. 104/92, ovvero se è commesso con armi o da persona travisata.
Si tratta di circostanze che rientrano tra quelle ad effetto speciale (sono tali quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo). Per questo tipo di circostanze vale il principio per cui l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato ma sulla pena stabilita per la circostanza ad effetto speciale.
Per i minori e per i disabili vale quanto già detto in occasione dei casi di procedibilità d’ufficio del reato.
Analogamente per la donna in stato di gravidanza si può dire che questa situazione (che a differenza delle altre non comporta la procedibilità d’ufficio) risponde ovviamente ad una esigenza di tutela rafforzata e di protezione maggiore della donna e del nascituro in un momento delicato per entrambi. Tanto la futura madre quanto il concepito possono risentire di danni gravi per le condizioni psico-fisiche alterate dovute all’influenza perniciosa esterna di atti malevoli, stressanti e fonte di angoscia. L’ansia, la paura, il timore per la propria incolumità contrastano con la necessità di quiete e di tranquillità ambientale nelle quali deve evolversi la gestazione.
L’aggravante delle armi trova un suo precedente nell’art. 612 che disciplina la figura giuridica del delitto di minaccia. L’averla ripresa nel testo dell’art. 612 bis ha il merito di avere chiarito che la detta aggravante specifica non scompare nel più comprensivo reato di atti persecutori, neppure nel caso in cui questo fosse realizzato unicamente attraverso una serie di molestie. La commissione attraverso l’uso delle armi può avvenire semplicemente esibendole significativamente al soggetto passivo, a sottolineare la serietà delle intimidazioni e dei propositi. Ma possono anche essere adoperate per perpetrare reati connessi, quali quelli di lesioni personali e di tentato omicidio. Si tratterà caso per caso, di verificare se le armi siano servite soltanto a compiere azioni esulanti dalle azioni di persecuzione o se esse, invece, abbiano costituito anche uno strumento di vessazione o di disturbo.
Per la definizione di armi ci si deve rifare all’art. 585 del codice penale laddove, come già detto, sono equiparate alle armi vere e proprie tutti gli strumenti atti a offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo.
La circostanza aggravante costituita dal travisamento dell’autore è comune al delitto di rapina e ne condivide la ratio. L’impossibilità di identificare l’autore delle minacce, perché egli si rende irriconoscibile, aumenta l’intensità del timore ed impedisce una difesa efficace. Nello stesso tempo il fatto di adottare precauzioni per non essere identificato dimostra nell’agente una spiccata propensione delittuosa e la pervicacia del proposito.
Per la giurisprudenza, il travisamento consiste in una qualunque alterazione o celamento dell’aspetto fisico che sia idonea a rendere difficoltoso il riconoscimento; e a nulla rileva il fatto che il riconoscimento avvenga ugualmente.

Misure cautelari
Art. 9. Modifiche al codice di procedura penale
1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo l’articolo 282-bis sono inseriti i seguenti:
«Art. 282-ter (Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa). – 1. Con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
2. Qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone.
3. Il giudice può, inoltre, vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le persone di cui ai commi 1 e 2.
4. Quando la frequentazione dei luoghi di cui ai commi 1 e 2 sia necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
Art. 282-quater (Obblighi di comunicazione). – 1. I provvedimenti di cui agli articoli 282-bis e 282-ter sono comunicati all’autorità di pubblica sicurezza competente, ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni. Essi sono altresì comunicati alla parte offesa e ai servizi socio-assistenziali del territorio.»;

La pena edittale prevista per il delitto di atti persecutori consente l’arresto facoltativo nella flagranza di reato (art. 381 c.p.p.). Come si sa, nell’esercitare la facoltà di arresto la polizia giudiziaria procede all’atto soltanto se la misura è giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze della vicenda: i precedenti penali, le modalità esecutive, il terrore nella persona offesa, la protrazione delle condotte, l’intensità del proposito, l’anormalità del temperamento, la condizione di grave tossicodipendenza o abituale intossicazione alcolica.
Le misure cautelari sono consentite quando sussistano gravi indizi di colpevolezza e ricorrano alternativamente o cumulativamente il pericolo di inquinamento probatorio in relazione all’acquisizione ed alla genuinità della prova, la fuga o il pericolo di fuga, il concreto pericolo che l’imputato commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie per cui si procede.
I gravi indizi di colpevolezza devono riguardare la reiterazione di atti nei quali ravvisare episodi di minaccia e/o di molestia; l’esserne l’autore un soggetto determinato, cui quegli atti vengono riferiti e l’attitudine di questi atti a porsi come una condotta complessiva sorretta dalla finalità vessatoria verso la persona presa di mira.
Sembra di poter dire che in relazione ad una imputazione di atti persecutori il pericolo di compromissione della raccolta della prova si presenti come del tutto eventuale, a fronte di una realtà antigiuridica che richiede, per la sua configurazione, una serie qualificata di atti tipizzati di minaccia e di molestia. Non si può comunque escludere che, non ricorrendo i presupposti di opportunità per le più pesanti misure cautelari della custodia in carcere, degli arresti domiciliari o del divieto od obbligo di dimora, l’imposizione di tenersi ad una certa distanza dai luoghi frequentati dalla vittima possa contribuire ad acquisire prove genuine e non inquinate da interventi dell’imputato o di chi per lui.
Per quanto attiene al pericolo di fuga, va detto che per l’applicazione delle misure cautelari esiste il limite costituito dal fatto che per il reato per cui si procede il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore ai due anni di reclusione.
Infine, l’ultima delle tre condizioni previste per l’applicazione delle misure cautelari è quella che appare più facilmente invocabile a proposito dell’applicazione a soggetti cui si addebita il delitto di atti persecutori della nuova misura cautelare del divieto di avvicinamento. Il pericolo deve essere reale e non soltanto ipotizzato o immaginato. Inoltre la norma impone che esso debba essere desunto dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla personalità dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali.
In relazione al delitto di atti persecutori è consentita la misura più grave della custodia cautelare in carcere, posto che la pena edittale prevista per questo reato rientra nei limiti previsti per legge per la sua applicazione.
La custodia cautelare può essere disposta con un ricovero presso una idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero con riguardo a soggetti in stato di infermità di mente. Una siffatta misura di cautela appare particolarmente opportuna per gli autori di reati persecutori che rivelino turbe psichiche incidenti sulle loro facoltà intellettive e volitive.
L’art. 9 del D.L. 11/2009, istituisce una nuova misura cautelare di tipo coercitivo, costituita dal divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Detta misura cautelare è disciplinata nel contesto di un provvedimento che apporta modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale, tra le altre; non è strettamente collegata al delitto di atti persecutori.
Il nuovo art. 282 ter c.p.p., infatti, ha ambito e portata generali, nel senso che esso individua una tipologia di misura di cautela affidata alla valutazione del giudice per ogni fattispecie di reato relativamente a cui si riveli proporzionata ed opportuna.
A differenza dell’obbligo e del divieto di dimora il cui nucleo essenziale è costituito dal riferimento al territorio di un determinato comune, la nuova misura cautelare prescinde da questo riferimento geografico ed ha come termine da prendere in considerazione, quello generico di luoghi determinati, peraltro da individuare con specifico riguardo ad un preciso dato di fatto, rappresentato dall’essere quei luoghi frequentati dalla persona offesa.
Essa poi può essere articolata nella previsione di prescrizioni da imporre al destinatario, nel senso che a costui può farsi divieto, altresì, di comunicare con la persona offesa e possono comunque essergli imposte modalità di comportamento ove le esigenze concrete, abitative o lavorative, lo richiedano.
Il delitto di atti persecutori consente l’applicazione della misura cautelare suddetta.
Il contenuto tipico della misura cautelare di nuova introduzione è duplice. Con essa il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati, indicati in funzione del fatto che essi sono abitualmente frequentati dalla persona offesa o da altre persone da tutelare; oppure può imporre al medesimo di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa. Questo contenuto può poi essere completato con disposizioni che ne accentuano gli aspetti di difesa dei soggetti al cui beneficio la misura è rivolta.
Rispetto al divieto di dimora va detto che quest’ultimo può avere un ambito anche non soltanto comunale e quindi estendersi anche alla provincia o alla regione. Nel confronto, il divieto di avvicinamento assume portata ridotta e di supplemento.
E’ come sempre in queste materie la situazione concreta a suggerire al giudice procedente la misura opportuna a provvedere alle esigenze che si presentano di volta in volta.
Può, a prima vista, apparire curioso che si possano fissare distanze da osservare ad un imputato, per tutelare la riservatezza dei terzi, la loro tranquillità ed in definitiva la loro libertà morale, se non addirittura la loro incolumità fisica. La misura ricordata è, nella sua genericità, estremamente duttile e può avere per beneficiari dei divieti od obblighi imposti all’imputato anche soggetti diversi da quello direttamente preso di mira dal persecutore. E’ questo il caso dello spasimante respinto che dimostra di volersi rivalere sui figli del nuovo compagno di colei che ha perduto; o, più in generale, di colui che vessa taluno e minaccia di punirlo in modo trasversale con il colpirne i congiunti e le altre persone care.
Molto opportuna appare, per quanto concerne il reato di atti persecutori, la disposizione del comma terzo, per la quale il giudice può vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le persone da tutelare.
Il reato di atti persecutori, infatti, vede spesso la condotta che lo configura costituita da intrusioni nella vita privata altrui eseguite tramite mezzi di comunicazione, a cominciare dal telefono, tradizionale strumento di molestia e petulanza, per finire ai più moderni sistemi informatici.
Non è detto, ovviamente, che l’imputato cui sia applicata la misura cautelare suddetta, osservi le prescrizioni impostegli.
Proprio nel caso del reato di atti persecutori la sua caratteristica di costituire manifestazione, il più delle volte di pulsioni ossessive renderà l’imputato insensibile ad un precetto contenuto in un atto scritto notificatogli da un ufficio, sia pure giudiziario.
Le inosservanze non sono punite, di per sé, non avendo il legislatore munito la misura cautelare in questione di una sanzione specifica. In proposito soccorre il disposto generale di cui all’art. 276 c.p.p..
La norma citata dispone che, nel caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione.
Non è escluso, pertanto, specialmente se il reato per il quale si procede è aggravato, è commesso da un recidivo o è perpetrato da persona che era già sottoposta a custodia cautelare, che il giudice possa disporre gli arresti domiciliari o la custodia in carcere.

Modifiche in materia di incidente probatorio
Incidente probatorio
392. Casi.

1. Nel corso delle indagini preliminari [c.p.p. 326, 327, 328, 329, 551] il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono chiedere al giudice che si proceda con incidente probatorio:
a) all’assunzione della testimonianza [c.p.p. 194] di una persona, quando vi è fondato motivo di ritenere che la stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento;
b) all’assunzione di una testimonianza quando, per elementi concreti e specifici, vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso;
c) all’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri;
d) all’esame delle persone indicate nell’articolo 210;
e) al confronto tra persone che in altro incidente probatorio o al pubblico ministero hanno reso dichiarazioni discordanti, quando ricorre una delle circostanze previste dalle lettere a) e b);
f) a una perizia o a un esperimento giudiziale, se la prova riguarda una persona, una cosa o un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile;
g) a una ricognizione, quando particolari ragioni di urgenza non consentono di rinviare l’atto al dibattimento.
1-bis. Nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis, 600, 600-bis, 600-ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 601 e 602 del codice penale il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi previste dal comma 1.
2. Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono altresì chiedere una perizia che, se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni ovvero che comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su persona vivente previsti dall’articolo 224-bis [c.p.p. 227, commi 2 e 4, 468, comma 5].
L’art. 392 primo comma del codice di procedura penale, elenca i casi nei quali è possibile chiedere al giudice che si proceda con incidente probatorio. L’elenco è tassativo. Con l’incidente probatorio la prova è assunta in contraddittorio in vista della sua utilizzazione nel futuro giudizio.
Il secondo comma dello stesso articolo dispone che per alcuni reati, da esso specificamente indicati, l’incidente probatorio può essere chiesto comunque, anche se non ricorrono i casi che lo giustificherebbero, elencati nel primo comma. Il D.L. 11/09 ha modificato questa disposizione annoverando innanzitutto tra quegli specifici reati anche quello disciplinato dall’art. 612 bis ed inoltre stabilendo che l’incidente probatorio può essere chiesto per l’assunzione della testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa maggiorenne (mentre prima poteva essere chiesta per assumere la testimonianza di persona minore degli anni sedici).
La modifica normativa risponde a plurime esigenze. Anche il reato di atti persecutori offende, per definizione, interessi privati attinenti all’integrità psico-fisica ed alla libertà morale ed è idoneo a cagionare ripercussioni sulla qualità della vita della persona offesa che è bene accertare con prontezza. La tutela dei soggetti minori d’età impone che i loro ricordi siano acquisiti prima che si disperdano, quando è ancora fresca la memoria delle vessazioni subite, se sono loro le vittime degli atti di disturbo, o quando ancora possono riferire con tutta la necessaria chiarezza e precisione di quanto hanno saputo e di quanto sono stati testimoni. Analoga tutela ha meritato la persona offesa che sia maggiorenne, proprio perché la prova venga acquisita con ogni possibile garanzia di certezza per i dettagli memorizzati e quando ancora i fatti lesivi sono ben presenti nella psiche dell’interessato. V’è poi da considerare il risvolto doloroso cagionato dal riprendere a distanza notevole di tempo dai fatti, come avviene per i nostri processi, il racconto in giudizio di episodi che hanno cagionato sofferenza, che si vuole dimenticare ed i cui effetti si intende superare, spesso con l’aiuto di sanitari e farmaci.
Particolarmente opportuno, pertanto, appare l’intervento di modifica a favore delle vittime degli atti persecutori, e non solo, dato che le modifiche si applicano su un piano più vasto. L’intervento, in sostanza, ha parificato, per gli aspetti indicati, il reato di atti persecutori ai reati sessuali, tutti di spiccato pregiudizio per l’equilibrio psichico dei soggetti passivi e molto delicati nella ricostruzione dei loro elementi di fatto nel giudizio, specie quando coinvolgono ambienti familiari e relazioni parentali.
Si segnala, infine, che modifiche sono state apportate anche all’art. 398 c.p.p. in ordine alle modalità di assunzione della prova nell’incidente probatorio che ha inoltre esteso quella disciplina anche al reato di atti persecutori.

Competenza

La competenza a conoscere con il giudizio ordinario del reato di atti persecutori è attribuita in primo grado al tribunale in composizione monocratica.
Ad esso si applicano le norme di cui al libro VII del codice di procedura penale, le quali escludono l’udienza preliminare davanti al Gip e prevedono la citazione diretta a giudizio, ad opera del pubblico ministero.

Gli atti persecutori ed il risarcimento del danno

L’illecito costituito dalla perpetrazione di atti persecutori si presenta per chi ne rimane vittima, come fatto che è titolo per chiedere il risarcimento del danno. Sul punto è indubbia l’applicabilità degli artt. 185 del codice penale e 2059 del codice civile, che contemplano il risarcimento del danno patrimoniale e non.
In particolare è dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale, in relazione ad un reato che colpisce direttamente la sfera della libertà morale della persona, la sua quiete, la sua tranquillità, l’ordinarietà dei suoi comportamenti e l’ambito dei sentimenti e degli affetti.

Ammonimento
Art. 8. Ammonimento

1. Fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all’articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall’articolo 7, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore.
2. Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore valuta l’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni.
3. La pena per il delitto di cui all’articolo 612-bis del codice penale è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo.
4. Si procede d’ufficio per il delitto previsto dall’articolo 612-bis del codice penale quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo.

L’ammonimento è un istituto di derivazione anglosassone, nei cui ordinamenti è conosciuto sotto forma di “restraining order” emanato dall’autorità con lo scopo, riferito ai comportamenti di stalking, di indurre il soggetto agente ad interrompere le condotte disturbatrici. Il contesto normativo nel quale è collocato, in quegli ordinamenti, affianca questo strumento alle sanzioni penali, unitamente ad altre forme latamente dissuasive di natura civile e medico-psicologica.
Nel nostro ordinamento è stato introdotto come misura di prevenzione, avente natura amministrativa, affidata, per la sua concreta applicazione, alla scelta del privato, che si risolva a chiedere l’aiuto dell’autorità costituita ma non ancora a chiedere la punizione del colpevole.
L’ammonimento assume, nella visione del legislatore, grande rilevanza nell’ambito della repressione degli atti persecutori. L’idea che lo ispira è che, nel momento in cui episodi sporadici di minacce o di molestie assumono chiaro carattere seriale e vengono a cagionare una fondata preoccupazione nel soggetto passivo, la presenza dell’autorità di polizia valga come efficace mezzo per porre l’agente di fronte alle proprie responsabilità e per convincerlo a ritornare ad un comportamento ordinato.
Nelle ossessive attenzioni del persecutore può cogliersi quasi sempre un connotato di disequilibrio, di eccitazione, di scompenso esaltato e morboso. Il fermo approccio degli organi di tutela dell’ordine pubblico può ricondurre a sobrietà chi ha temporaneamente perduto il senso del convivere civile.
Nello stesso tempo, l’ammonimento ha un intrinseco valore di denuncia, per quanto attiene al suo aspetto di condurre una determinata notizia di pericolo a conoscenza dell’autorità.
In sintesi la persona offesa espone i fatti all’autorità di pubblica sicurezza e chiede, per il tramite di essa, al Questore l’ammonimento del soggetto che indica come autore degli stessi.
Il Questore assume informazioni e se ritiene fondata la richiesta convoca colui nei cui confronti la richiesta è rivolta e lo ammonisce oralmente a tenere una condotta conforme alla legge.
Al riguardo è redatto un verbale, consegnato in copia alla persona richiedente ed al soggetto ammonito.
L’avvenuto ammonimento attribuisce al Questore titolo per emanare provvedimenti in materia di armi e munizioni.
Il momento nel quale il soggetto passivo degli atti persecutori è facultizzato a presentare l’istanza è indicato nell’art. 8 del D.L. 11/2009 con riferimento a quello, avente effetto preclusivo, in cui viene proposta la querela.
La presentazione della querela, cui è coessenziale la manifestazione della volontà di punizione del colpevole, rende procedibile l’azione penale e determina la decadenza dalla facoltà di chiedere l’intervento amministrativo, il quale ha la finalità di prevenire l’esercizio dell’azione penale in forza del venir meno, per il futuro, delle ragioni che lo fondano.
L’ammonimento è esperibile unicamente nei casi in cui il reato di atti persecutori, che esso è finalizzato a prevenire, è procedibile a querela.
E’ questa una limitazione notevole, data la pluralità di casi nei quali per gli atti persecutori è prevista la procedibilità d’ufficio.
Verosimilmente il legislatore ha voluto evitare interferenze tra la procedura amministrativa, che vede assegnati agli organi di pubblica sicurezza poteri istruttori, ed il procedimento penale.
In tal modo la procedura di ammonimento risulta relegata ad una porzione soltanto delle fattispecie possibili e costruita come uno strumento che, in sostanza, soltanto completa la forma di tutela attribuita al singolo di decidere, secondo il proprio interesse ed opportunità, se servirsi delle facoltà di rivolgersi alle autorità e, in particolare, di esercitare il diritto di querela.
All’autorità di pubblica sicurezza il soggetto intenzionato a chiedere l’ammonimento deve esporre i fatti. L’espressione così utilizzata dalla norma è palesemente generica nel suo riferirsi ad episodi di minaccia e di molestia che sono elementi costitutivi del reato di atti persecutori.
Questi fatti devono essere stati commessi, devono essere plurimi e devono essere giunti ad un grado di delineazione seriale tale da far comprendere che non si tratta di isolati, anche se ripetuti, episodi di disturbo ma della manifestazione di intenti persecutori, cui è seguito o sta per seguire l’evento rappresentato dalla grave e perdurante ansia, del fondato timore per l’incolumità o che ha per unica alternativa rimasta l’alterazione della abitudini di vita.
Lo stalking è fattispecie che si realizza in progressione di tempo; in un momento qualunque di questa progressione il soggetto passivo, che più non sopporti la sua prosecuzione o che teme sviluppi peggiori, può rivolgersi al Questore per ottenere uno sperato intervento risolutore.
Dell’evento descritto dalla norma incriminatrice, in definitiva, deve ricorrere un pericolo concreto.
Va chiarito che l’ammonimento è istituto previsto proprio ed unicamente in prevenzione del reato di atti persecutori.
Nella sostanza, l’ammonimento condivide le giustificazioni social preventive delle misure di prevenzione orali, in funzione dell’allarme sociale che comportamenti seriali di questo genere hanno determinato e per gli esiti spesso drammatici cui sono giunti.
La norma contenuta nell’art. 8 del decreto legge utilizza l’espressione “espone i fatti” motivatamente, posto che quelle circostanze di fatto che sono oggetto dell’esposizione non è detto che debbano essere già tali da configurare un reato consumato e, che, comunque, per esso difetta, per definizione, la querela. Le due situazioni ipotizzabili sono equivalenti. Finchè non è proposta la querela, non ha particolare rilievo che gli estremi del reato di atti persecutori siano integralmente ravvisabili o meno.
Si segnala che, ove non ricorrano gli estremi per il vero e proprio ammonimento, in quanto non ricorrono i casi di serialità intimorente che ne costituiscono il presupposto, soccorrono i poteri ed i doveri che l’art. 1 del Tulps attribuisce agli organi della pubblica sicurezza, in particolare ci si riferisce alla bonaria composizione dei dissidi privati.
Può accadere che i “fatti” da esporre aventi per destinatario ultimo il Questore integrino, di per sé, reati procedibili d’ufficio. In genere si tratta di reati di scarsa gravità e rilevanza sociale, taluni di mera natura contravvenzionale.
E’ necessario, a tal proposito, conciliare gli obblighi di comunicazione della notizia di reato con un istituto destinato a costituire una alternativa all’azione penale.
Il fatto che se i singoli illeciti di minaccia e di molestia assurgono ad un più grave reato, per entità di pena e per natura giuridica, ove si verifichi un determinato evento ulteriore e ciononostante siano procedibili soltanto a querela di parte, induce a ritenere che la volontà della vittima di rendere noti fatti intimidatori o di disturbo unicamente allo scopo di ottenere un ammonimento del colpevole consente all’autorità di pubblica sicurezza di limitare il proprio intervento a questo solo ammonimento.
Sembra che sul generale dovere di notizia all’autorità giudiziaria prevalga l’interesse a far cessare una attività persecutoria suscettibile di assumere connotati ben più gravi della mera intimidazione verbale o della molestia.
Diversamente va detto per il concorso di reati più o meno gravi estranei nei loro elementi costitutivi alla figura giuridica del reato di atti persecutori.
Come comportarsi di fronte a notizie, ricevute con la richiesta di ammonimento, che rivelano estremi di reato procedibile d’ufficio, non assorbito in quello di atti persecutori?
Gli esempi più eclatanti sono quelli delle molestie trasmodate in aggressioni fisiche, con conseguenti lesioni personali gravi e quelli delle persecuzioni divenute di contenuto spiccatamente sessuale, nei casi di procedibilità d’ufficio ex art. 609 septies del codice penale.
Ritenere che anche in queste ipotesi l’autorità di pubblica sicurezza debba limitarsi ad ascoltare quanto riferisce il richiedente l’ammonimento, senza dare la doverosa notizia all’autorità giudiziaria di fatti per i quali non occorre la querela e che lo stesso richiedente non intende proporre, appare eccedente rispetto allo scopo dell’intervento autoritativo ed alle esigenze di ripristino della legalità.
Mentre le minacce, anche gravi, e le molestie, possono essere fisiologicamente comprese nella struttura del reato di atti persecutori e che esse diventano procedibili a querela se inserite in un contesto più rilevante della loro somma, le lesioni all’integrità fisica e le violenze sessuali rappresentano uno sviluppo delle azioni minacciose e moleste che comunque non potrebbero essere assorbite dal reato di atti persecutori e quindi vanno comunicate anche contro la volontà della vittima (ciò, secondo alcuni, potrebbe costituire un rilevante motivo di remora per il ricorso alla richiesta di ammonimento).
Le utilità fornite, per il soggetto richiedente, dall’ammonimento hanno un risvolto per lui possibilmente negativo. Egli, infatti, con l’istanza che formula perde il diritto di conservare la scelta di proporre, oppure no, successivamente la querela.
Con la richiesta del provvedimento i fatti sono ormai denunciati all’autorità. Essi sono usciti dalla sfera di riservatezza dell’interessato e lo stesso soggetto agente ha avuto precisa notizia della reazione della vittima, disposta ad avvalersi dell’aiuto dell’autorità, con ogni conseguenza che una siffatta consapevolezza può comportare negativamente per costei nell’atteggiamento disequilibrato del molestatore. Sono venute meno le ragioni di riserbo e di tutela della sfera intima della persona offesa che riservavano alla sua sola scelta la procedibilità penale dei fatti per essa pregiudizievoli.
Oltre alla procedibilità d’ufficio la legge dispone che la reiterazione degli atti stigmatizzati dall’autorità giustifica, inoltre, anche la previsione di un aumento di pena a titolo di circostanza aggravatrice del reato.
L’istanza di ammonimento può, in mancanza di diverse disposizioni, essere formulata in qualunque forma che sia idonea a manifestarla e quindi anche in forma orale.
L’ammonimento è una misura di prevenzione sui generis. Esso ha la funzione, come si è detto, di distogliere un determinato soggetto da un comportamento antigiuridico e di farlo ritornare ad una condotta di vita conforme alla legge ed ha per implicito presupposto la pericolosità di tale soggetto, dimostrata dalla perpetrazione di tutta una serie di atti di minaccia e di molestia, specificamente esposti da chi ne è rimasto vittima che sostituiscono i requisiti di pericolosità previsti dall’art. 1 L. 1423/56.
Esso è provvedimento sottratto alla partecipazione nel procedimento dell’autorità giudiziaria e rimesso interamente all’autorità amministrativa; non è munito di sanzione, per il caso in cui venga disatteso: le conseguenze dell’inosservanza si ripercuotono unicamente sul piano della procedibilità del reato di atti persecutori, per il quale non occorre più la querela e sull’entità della pena, posto che l’inosservanza configura una specifica circostanza aggravante.
Mentre per l’emissione del foglio di via obbligatorio ex art. 2 della legge citata, si dispone espressamente che il provvedimento del Questore debba essere motivato, nulla di analogo è precisato a proposito dell’ammonimento. Il provvedimento è discrezionale ed il fatto che non rechi una motivazione non ne costituisce vizio rilevabile come causa della sua nullità. Ne costituisce vizio, invece, la sua pronuncia nei casi non previsti dalla legge come ad esempio se fosse emanato per un reato diverso da quello contemplato nell’art. 612 bis.

Bibliografia

Violenza sessuale e stalking – autori vari – casa editrice “Esperta”;

Stalking – autori vari – Editori riuniti university press;

Lo stalking e gli atti persecutori nel diritto penale e civile – F. Bartolini – Editrice La tribuna.