Gentilissima Signora Cucchi,

ho letto con attenzione e partecipata comprensione la lettera che ha voluto indirizzarmi tramite L’Espresso e con la quale, con molto garbo ed altrettanta legittima fermezza, mi invita a prendere iniziative adeguate nei confronti del segretario generale di un sindacato di Polizia.
In premessa, mi permetto di chiarire il mio punto di vista in relazione alla evocata presenza di un asserito partito dell’”antipolizia”.

Io non credo che esistano partiti “pro polizia” o “anti polizia”. Credo, semplicemente ma più convintamente, che il Nostro Paese abbia la fortuna di avere donne e uomini che svolgono il difficile lavoro di tutori dell’ordine. Credo nelle loro quotidiane azioni, credo che il loro sia un lavoro difficile ed usurante, ma che la passione e l’abnegazione li spinga sempre a dare il massimo nell’interesse generale. Come credo che nelle Nostre Comunità alberghi un profondo rispetto ed una grande considerazione per le Forze di Polizia, tutte indistintamente. Come sono consapevole che tra di noi ci sono, per fortuna pochi, che non onorano la divisa e il giuramento di fedeltà al nostro Stato Democratico e pongono in essere comportamenti censurabili, penalmente e disciplinarmente, e come tali debbano essere perseguiti, senza se e senza ma.

Ecco perchè, come giustamente ha ricordato Lei stessa, io mi onoro di essere il Capo di quei poliziotti che hanno condotto l’indagine sulla morte di Suo fratello con scrupolo e (cito le Sue parole) onestà intellettuale in un contesto difficile e doloroso.

Lei apre, poi, una riflessione che ritengo giusto accogliere che è quella di quanti agiscono sui social network in modo a dir poco scomposto, fino ad arrivare ad usare termini ed espressioni che assurgono a rilevanza penale, rendendo il tutto ancor più insopportabile allorquando il loro nome può essere associato (più o meno direttamente) alle istituzioni cui appartengono.

In questo senso mi sono speso non da ieri per campagne di sensibilizzazione sull’utilizzo consapevole dei social network da parte di tutti gli appartenenti alla Polizia di Stato; parimenti ho stimolato i titolari delle azioni disciplinari ad essere fermi e puntuali nello stigmatizzare i comportamenti non corretti, anche se a porli in essere sono rappresentanti sindacali.

È per intima convinzione che ritengo che il rispetto per chi ha vissuto un dolore così grande come il Suo, sia un diritto e non una concessione. Ed il rispetto è un tema che attraverso il Suo spunto desidero rilanciare. Perché credo fermamente che laddove il rispetto manchi il vuoto generato da tale assenza venga riempito da uno spirito corporativo che quasi mai è un bene.

Mi riferisco, per esempio, alla discussa e, mi permetto di dire, discutibile sentenza secondo la quale sputare ad un uomo che indossa l’uniforme è fatto che non merita sanzione alcuna perché ne viene riconosciuta la “speciale tenuità”.

Rispettare l’altro è il fondamento per uscire da una spirale di sentimenti e comportamenti ispirati dalla faziosità, dall’essere contro qualcosa o qualcuno.

Non riconoscere dignità alcuna all’uniforme che rappresenta lo Stato, considerarla cosa di scarso valore, rischia di provocare in chi la indossa, un sentimento di frustrazione, lo stesso che prova chiunque non si senta rispettato.
Credo che noi tutti, noi cittadini di questo Paese in questo tempo, avremmo davvero bisogno di recuperare il senso, il significato, l’importanza del rispetto che non può rimanere parola astratta ma che deve improntare ogni nostro comportamento; perché al di là dei ruoli, delle funzioni, delle presunte appartenenze, delle differenti condizioni la dignità di ogni essere umano abbia sempre la prevalenza, financo di chi delinque.
Cosa che auguro davvero a tutti e a me per primo.

Franco Gabrielli*

*Capo della Polizia,

Direttore Generale della Pubblica Sicurezza

 

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