In un articolo di alcuni  giorni fa, l’autorevole quotidiano economico “Financial Times” cita i dati della Commissione parlamentare antimafia: “I sodalizi mafiosi in Italia hanno un fatturato annuo stimato di 150 miliardi di euro. Si tratta di 40 miliardi di euro in più della maggiore holding italiana Exor, che comprende Fiat Chrysler e Ferrari. Approfittando della decennale crisi economica in Italia, la mafia ha acquistato terreni agricoli, bestiame, mercati e ristoranti, riciclando i propri soldi attraverso quella che è una delle industrie leader del paese. Il valore del cosiddetto business delle agromafie è quasi raddoppiato, passando da 12,5 miliardi di euro nel 2011 a oltre 22 miliardi di euro nel 2018 (con una crescita media del 10% all’anno)”. Un lungo articolo viene dedicato a Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi, in provincia di Messina, un polmone verde di 86.000 ettari, come esempio di combattente contro il crimine che, a rischio della vita e dei pericoli per sé e la sua famiglia, in collaborazione con le forze dell’ordine, “non solo ha identificato lo schema mafioso, ma ha escogitato la soluzione: nuove regole che obbligano a passare i controlli di polizia, applicati in modo retrospettivo, con numerose confische di terre. E poco più di un mese fa il Parco dei Nebrodi, è stato eletto quale autorevole componente del comitato esecutivo della “IAPA”, l’International Alliance of ProtectedAreas (organismo istituito per promuovere “la relazione razionale ed eticamente equilibrata tra umanità e natura)”,  durante i lavori dell’assemblea internazionale riunitasi in Cina, quale riconoscimento per la sua attività di tutela, studio e sperimentazione nel campo della salvaguardia e dello sviluppo sostenibile.

La stampa non ha dato il doveroso risalto a queste buona notizia, mentre il parco è tornato a far parlare di sé, perché proprio in quegli stessi giorni il GIP di Messina, Eugenio Fiorentino, ha archiviato l’inchiesta sull’agguato ad Antoci nel maggio 2016,  un’imboscata tesa per punire il suo impegno di contrasto alla criminalità  culminato con l’introduzione di un Protocollo di legalità, per regolare l’assegnazione degli affitti dei terreni da pascolo, prevedendo, anziché un’autocertificazione, la presentazione del certificato antimafia anche per gli affitti inferiori a 150.000 euro, fino ad allora esentati.

A mettere in crisi la “mafia rurale” o dei pascoli,  come viene chiamata, era stata la collaborazione tra un sindaco risoluto a difendere la sua terra, una task force di poliziotti capaci e pieni di iniziativa guidati da un giovane funzionario risoluto e preparato, e alcuni imprenditori onesti che hanno concorso a scoperchiare il vaso pestilenziale di un sistema malavitoso che stava fruttando milioni e milioni di euro alle famiglie mafiose, realizzando un modello ripetibile di contrasto all’illegalità, nato a Troina, nel cuore dei Nebrodi,  ed esteso poi a cavallo tra l’ennese e il messinese.

Siamo intorno al 2013, quando le indagini condotte dal giovane collega Daniele Manganaro, sfociate nelle operazioni “Discovery1” e “Discovery2”, rivelano la strategia ben strutturata e controllata dalla criminalità organizzata, volta ad intercettare i finanziamenti pubblici, erogati grazie a un principio contabile semplice, basato sul numero di  terreni di proprietà o affittati per il pascolo o l’agricoltura, con un tetto fissato a 150 mila euro, in modo da sottrarsi ai controlli antimafia. Era là che entravano in gioco i colletti bianchi dei clan, quella struttura riservata di comando che adotta ed applica le tecniche finanziarie, amministrative, giuridiche e del marketing, per trovare gli accorgimenti utili ad aggirare le regole, ungere le ruote,  incrociare la domanda e l’offerta di favori, tangenti, protezioni.

Proprio per eludere i controlli e aggirare quel tetto economico che limitava i suoi affari sporchi, la mafia aveva creato scatole cinesi di aziende agricole, le aveva intestate a mogli, figli o parenti stretti, “fidelizzando” con l’intimidazione gli imprenditori più esposti al ricatto, costringendo con la forza gli agricoltori e gli allevatori onesti a cedere i terreni privati o a non partecipare ai bandi per i terreni demaniali o comunali.

Come se non bastasse, c’è un altro fronte aperto, quello del settore agroalimentare, anche quello minacciato dalla criminalità: solo nella provincia di Messina, dal 2010 al 2016, risultavano smarriti oltre 20mila bovini e altrettanti ovini e caprini, animali rubati, macellati clandestinamente, o forse mai esistiti, ma che si rivelavano  utili ad  accedere ai fondi europei. Le indagini condotte dal nostro collega, a capo di una Squadra specializzata di poliziotti, affiancata dalle Guardie del Parco dei Nebrodi e da volontari guardie zoofile e venatorie dell’associazione ESP di Pettineo (Me),  individuano due  trust criminali operanti tra i comuni del Parco dei Nebrodi che rubano le mandrie, le spostano  di notte per chilometri su strade impervie e le caricano su automezzi destinati ai mercati della filiera della macellazione clandestina. I controlli condotti insieme ai veterinari dell’Istituto zooprofilattico, portano alla luce irregolarità, rischi sanitari, con centinaia di animali sequestrati, decine di bovini dichiarati sani dai servizi veterinari ed invece malati di brucellosi e tubercolosi, intere farmacie veterinarie sequestrate, somministrazioni di farmaci illegali o abusivi,  per non parlare di centinaia di chili di carne, salumi e formaggi sequestrati poiché provenienti da macellazione clandestina e attività non autorizzate.

Saranno queste operazioni di investigazione e contrasto, innovative perché ispirate a  quel concetto di sicurezza partecipata rivelatosi vincente per il coinvolgimento di amministrazioni, associazioni del volontariato, enti e singoli cittadini, a scatenare la reazione della malavita locale organizzata che sta dietro agli imprenditori disonesti.

Come racconta Giuseppe Antoci, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, teatro di quella straordinaria esperienza di riscatto e resistenza contro la mafia, “… a più di due anni dal vile attentato che ha colpito me e la mia scorta, oggi, dall’inchiesta chiusa dalla magistratura, la sola cosa certa venuta fuori dalle indagini è che quel commando in tuta mimetica, che assaltò la Thesis sulla quale viaggiavamo quella sera, aveva il chiaro obbiettivo di uccidere colpendo prima la ruota posteriore sinistra dell’auto blindata e successivamente, dandole fuoco con le molotov ritrovate, costringerci a scendere per essere giustiziati. Solo grazie all’arrivo del Vicequestore Manganaro siamo riusciti a salvarci”.  E si augura, come tutti noi, che si affacci su questo scenario inquietante un collaboratore di giustizia che possa far luce sui fatti ed aiutare la magistratura a riaprire l’indagine: “… spero  di vedere alla sbarra chi quella notte ci aspettava per ucciderci”.

Tutti devono augurarselo, perché quando si verificano fatti come questo in un clima avvelenato da correità o intossicato dall’indifferenza, dall’omertà e dall’egoismo, prendono piede le incredulità, i sospetti e le sottovalutazioni che aiutano a sottrarsi alle responsabilità, che sono individuali e collettive, così come i dover: quelli della vigilanza, del rispetto delle leggi, della devozione che va riservata al nostro patrimonio naturale.

E’ necessario  ricordare ed esaltare i successi conseguiti: gli interventi di contrasto ai reati di abigeato e macellazione clandestina del Commissariato di S. Agata Militello hanno determinato una drastica diminuzione dei furti di animali. Da una media di 200 – 300 bovini rubati annualmente fino al 2014, si è passati a soli 29 nel 2016, addirittura azzerati nel 2017.  E altrettanti effetti positivi sono derivati dall’adozione del Protocollo di legalità. La Prefettura di Messina ha emesso le prime interdittive antimafia e sono scattate le procedure di revoca delle assegnazioni di terreni pubblici per un totale di 4.200 ettari, che avrebbero garantito, alle famiglie mafiose, più di 5 milioni di fondi Agea e Ue all’anno. Le prefetture di Messina ed Enna hanno rifiutato la certificazione antimafia a ben 23 aziende su 25, dopo aver accertato i collegamenti con importanti clan mafiosi, che hanno presentato ricorso. Il 7 maggio 2016, il Tar ha confermato i provvedimenti interdittivi e la revoca dei terreni a quelle aziende per le quali la prefettura aveva accertato contiguità con le famiglie mafiose, a esplicito riconoscimento del valore del Protocollo di legalità.

Per questo è necessario continuare a raccontare questa storia, che testimonia la volontà di riscatto ed emancipazione di una parte importante e troppo spesso dimenticata del nostro straordinario Paese.

Roma, 15 novembre 2018

Enzo Marco Letizia

Editoriale – 15 novembre